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 2006  febbraio 03 Venerdì calendario

Il rischio di una quarta guerra del Golfo. Il Sole 24 Ore 3 febbraio 2006. In fondo al Golfo Persico, oltre lo Stretto di Hormuz, d’estate la temperatura raggiunge i 50 gradi, l’aria trasuda umidità, la sabbia raschia la gola e l’atmosfera inala nei polmoni una miscela micidiale di metano e Corano: questo è Assaluyeh, il complesso industriale di South Pars, il più grande giacimento di gas del mondo dove sventola la bandiera della repubblica islamica

Il rischio di una quarta guerra del Golfo. Il Sole 24 Ore 3 febbraio 2006. In fondo al Golfo Persico, oltre lo Stretto di Hormuz, d’estate la temperatura raggiunge i 50 gradi, l’aria trasuda umidità, la sabbia raschia la gola e l’atmosfera inala nei polmoni una miscela micidiale di metano e Corano: questo è Assaluyeh, il complesso industriale di South Pars, il più grande giacimento di gas del mondo dove sventola la bandiera della repubblica islamica. L’Iran "atomico" di Ahmadinejad custodisce, secondo l’autorevole Oil & Gas Journal, il 16% delle riserve mondiali di gas e l’11% di quelle di petrolio. L’influenza degli ayatollah sui mercati dell’energia è indiscutibile: questa è la vera arma di distruzione di massa dell’Iran per spaventare i suoi nemici. La crisi tra l’Iran e l’Occidente sta emergendo come la questione geopolitica del 2006. possibile un’altra guerra del Golfo? Sarebbe la quarta dopo il conflitto Iran e Irak dall’80 all’88, quello per il Kuwait nel ’91 e l’invasione americana dell’Irak nel 2003. Guerre di potenza e petrolio che non hanno risolto l’instabilità del Medio Oriente, dove l’Arabia Saudita possiede un quarto delle riserve mondiali accertate di oro nero e l’intera regione, dall’Irak, all’Iran, dal Kuwait agli Emirati, estrae il 40% della produzione globale. L’ipotesi di un altro conflitto, come dimostra la storia antica e recente, non è da scartare: da quando Churchill nel 1908 decise di convertire l’alimentazione della flotta da carbone a oro nero, le nazioni vanno in guerra con il petrolio e per il petrolio. La maggior parte degli osservatori finora ha escluso la possibilità di una nuova tempesta d’acciaio nello Shatt el-Arab: il rischio di un’impennata dei prezzi è troppo grande, l’Iran può bloccare le sue esportazioni e quelle degli altri Paesi del Golfo, un bombardamento aereo e missilistico potrebbe dare risultati non decisivi, scatenando un’altra ondata di risentimenti anti-occidentali sui quali fanno leva i movimenti islamici. Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad è passato all’offensiva sull’atomica proprio perché conta su questi fattori, così almeno sostiene Farad Khosrokhavar, direttore della Scuola di alti studi sociali di Parigi, uno dei maggiori esperti di Iran e Medio Oriente. Il parere di Khosrokhavar è condiviso da molti altri analisti, anche americani. Eppure il pericolo di un conflitto esiste, condotto magari su scala regionale e non, almeno ufficialmente, dagli americani: Ahmadinejad si comporta come se la guerra fosse già iniziata e teme, secondo i diplomatici iraniani, che Israele, potenza nucleare non dichiarata del Medio Oriente, intenda ricorrere alla forza. "In fondo - sottolinea Khosrokhavar - nessuno in Occidente ha mai fermato la mano di Israele quando voleva colpire un obiettivo". Prima di piombare nel coma, il premier israeliano Ariel Sharon aveva fatto capire che l’Iran potrebbe essere nel mirino di un’operazione "Osirak Plus", dal nome dell’impianto atomico iracheno distrutto nell’81 dai caccia di Tel Aviv. Troppi i bersagli da centrare, troppo pochi gli aerei disponibili, dicono i critici dei piani di attacco. Uno "strike" israeliano parziale assesterebbe comunque un duro colpo non soltanto alle velleità atomiche dei pasdaran, ma a tutto l’Iran. E in Medio Oriente, grazie anche all’ascesa di Hamas, si sta creando un clima internazionale meno sfavorevole alla giustificazione di un attacco preventivo. Le conseguenze di un’azione militare però possono essere devastanti: un conflitto può mandare in crisi le forniture e, soprattutto, non esiste più da un pezzo una capacità di produzione petrolifera inutilizzata. I grandi produttori, dalla Russia all’Arabia Saudita, stanno pompando a pieno ritmo per approfittare dei prezzi elevati. In passato è stata l’Arabia Saudita, l’amica del cuore del mondo industriale, a calmare i mercati nei momenti difficili con supplementi di milioni di barili quando Saddam nel ’90 invase il Kuwait, dopo l’11 settembre e nel periodo precedente l’invasione dell’Irak. Le riserve strategiche, americane ed europee, oggi coprono una domanda limitata, e se la spia del serbatoio comincia a segnare rosso anche gli indici della crescita si abbatteranno. Quale sbocco può avere la crisi sul piano diplomatico? Se l’escalation contro Teheran si concretizzasse con eventuali sanzioni, gli iraniani potrebbero utilizzare l’arma del petrolio come già fecero gli arabi nella guerra del Kippur del ’73 e dopo l’ascesa di Khomeini nel ’79. La maggior parte degli osservatori fa notare che al Consiglio di Sicurezza si potrebbero opporre a sanzioni la Russia, la Cina che conta per il 25-30% delle sue importazioni petrolifere dall’Iran, l’India, membro non permanente del Consiglio, che da Teheran acquista buona parte del suo greggio e vuole fare un gasdotto delle meraviglie con gli ayatollah. Un terzo dell’umanità dipende e dipenderà dalle potenzialità energetiche iraniane: un buon motivo per evitare una guerra o per farla, a seconda dei punti di vista. Il petrolio costituirebbe insomma una patente di immunità per l’Iran. un ragionamento razionale, ma gli Stati Uniti stanno esercitando forti pressioni proprio su Cina e India, facendo intravedere la possibilità di alternative energetiche e strategiche. Gli Usa hanno in mano la carota ma anche il bastone perché controllano gli Stretti delle petroliere, da Hormuz a Malacca. Quale potrebbe essere una via di uscita? La soluzione, avanzata dal direttore dell’Aiea Mohammed el-Baradei, è di aprire un negoziato sul nucleare in Medio Oriente per arrivare a un patto di sicurezza regionale. Israele, con le sue 200 testate atomiche, ha espresso una certa disponibilità. Si fa poi notare che gli Stati Uniti e l’Iran hanno interessi convergenti in Iraq, dove gli sciiti, vincitori delle elezioni, sono interessati a stabilizzare il Paese. Gli Usa accerchiano l’Iran in Afghanistan e Iraq ma hanno anche liberato Teheran da due nemici: Saddam e i talebani. C’è però un’altra faccia della medaglia: iraniani e iracheni controllano il petrolio del Golfo. Una "Mezzaluna sciita" ricca di risorse che preoccupa i sunniti, ma anche Stati Uniti e Israele. In fondo al Golfo, dove spesso oro nero e gas evaporano all’orizzonte insieme alle speranze di pace, quasi sempre ci sono più motivi per fare una guerra che per evitarla. Resiste, per il momento, una sorta di "equilibrio della paura" dettato dai timori per le riserve e le forniture energetiche mondiali, che sembra ipotecare altre iniziative militari dopo quella, impegnativa e irrisolta, in Irak. La quarta guerra del Golfo, per il momento, si consuma in una battaglia negli ovattati corridoi della diplomazia, e nel freddo calcolo degli interessi economici e strategici. Alberto Negri