MACCHINA DEL TEMPO MARZO 2006, 10 febbraio 2006
Il 27 gennaio 1756 nasceva a Salisburgo Johannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus Mozart. Da allora sono trascorsi 250 anni, e tutto il mondo celebra con un tripudio di concerti, messe e festival (vedi box a pagina 88) il genio musicale che scrisse la sua prima composizione all’età di 5 anni
Il 27 gennaio 1756 nasceva a Salisburgo Johannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus Mozart. Da allora sono trascorsi 250 anni, e tutto il mondo celebra con un tripudio di concerti, messe e festival (vedi box a pagina 88) il genio musicale che scrisse la sua prima composizione all’età di 5 anni. Una buona occasione per svelare i misteri di una Musa che ci accompagna dai tempi in cui abitavamo nelle caverne: dalle musiche sacre dei riti magici e propiziatori nell’antico Egitto, passando per i canti delle tragedie greche e dei festini romani fino ad arrivare alla nascita del melodramma, la musica ha sempre intrattenuto l’essere umano. Anzi, come diceva il naturalista Charles Darwin, probabilmente i nostri antenati usavano per comunicare qualcosa che somigliava più alla musica che al linguaggio vero e proprio. Non a caso, quindi, in anni recenti c’è stato un fiorire di ricerche, soprattutto nel campo delle neuroscienze, che hanno gettato luce sui meccanismi legati alla percezione, all’elaborazione e alla produzione musicale, nonché sull’impatto delle note sui processi formativi e sullo sviluppo dell’individuo. Molte di esse sono state presentate a Lipsia nel recente convegno ”The Neuroscience and Music II. From perception to performance”, organizzato dalla Fondazione Pierfranco e Luisa Mariani. Ascoltare musica, così come impararla, sembra avere effetti positivi sulla percezione del dolore, sulle capacità intellettive dei bambini e sulla socialità negli autistici. Per non parlare dei benefici rilevati sulle donne in gravidanza e sul feto. Proprio una ricerca italiana, svolta all’Azienda ospedaliera ”S. Bambino” di Catania, ha messo in evidenza questo aspetto. Le vibrazioni esterne, infatti, passano debolmente anche attraverso il corpo. Quindi anche il bambino che è ancora nella pancia della madre comincia ad apprendere come produrre, da queste vibrazioni esterne, la sensazione interiore del suono e riconoscerne il timbro, il tono e la frequenza. «Abbiamo monitorato 10 donne in tre diverse fasi della gravidanza per analizzare la variazione del ritmo cardiaco fetale collegata al loro stato emozionale e ai suoni provenienti dall’esterno», spiega Nelly Cantarella, musicista e musicoterapista. « risultato che già a 20 settimane il feto percepisce la musica attorno a sé, mentre a 28 e 34 settimane riesce anche a sentire il rilassamento della madre che ascolta la musica in cuffia». Che la musica fosse legata alle emozioni non è una novità. «Il suo ascolto attiva aree del cervello tradizionalmente legate alla gratificazione e al piacere», spiega Luisa Lopez, neurofisiologa del centro per le disabilità di sviluppo ”Eugenio Litta” e consulente della Fondazione Mariani. Già Robert Zatorre della McGill University di Montreal, infatti, con i suoi studi sui brividi aveva dimostrato che musiche particolarmente emozionanti producono nella corteccia frontale e nell’amigdala (nucleo di cellule nervose all’estremità del lobo temporale) reazioni simili a quelle di altre esperienze piacevoli, come il cibo o il sesso. «Sono ormai soppiantate dunque le affermazioni dello studioso del linguaggio Steven Pinker, secondo il quale la musica era qualcosa di irrilevante per la nostra specie. Essa coinvolge invece l’organismo a diversi livelli, influenzando abilità cognitive, linguistiche e motorie. E l’elaborazione del messaggio musicale è tanto complessa che non si può dire che esista nel cervello un centro della musica», continua Lopez. Quello che non si immaginava, però, è che la musica e la sua esecuzione, soprattutto da parte di professionisti, coinvolgesse anche l’emisfero sinistro, che domina i processi logico-matematici, e non soltanto alcune zone dell’emisfero destro, responsabile dei processi creativi. come se il cervello sapesse analizzare separatamente le diverse parti: l’emisfero destro ne coglie timbro e melodia e il sinistro ritmo e altezza dei suoni. Un processo che coinvolge anche l’area di Broca, lasciando intendere che musica e linguaggio non sono poi percorsi così distinti a livello cerebrale. Due ricerche condotte da Aniruddh Patel dell’Istituto di neuroscienze di San Diego e di Daniele Schon del Cnrs (Consiglio nazionale francese per la ricerca scientifica) di Marsiglia mostrano infatti come il cervello si attivi in maniera diversa nei musicisti e nei non musicisti, quando riconosce gli errori in un brano, e come le informazioni visive possano essere più facilmente memorizzate se associate a uno stimolo musicale. Scoperte importanti per comprendere le modalità di apprendimento del linguaggio, che sembrerebbe favorito se presentato in un contesto musicale. Le ninnananne, per esempio, potrebbero sollecitare nel bimbo la formazione della memoria a lungo termine, alla base dell’evoluzione linguistica. Per questo molti si chiedono se l’istruzione musicale fin dalla tenera età possa agevolare l’apprendimento linguistico e aiutare i bambini affetti o predisposti alla dislessia. «In effetti», dice ancora Luisa Lopez, «una delle cause più comuni di dislessia è la difficoltà a distinguere tra loro alcuni tipi di suoni e ad associarli a un segno grafico. Questo, però, è ciò che la musica insegna a fare con le note». Difficile dire poi se la preferenza per la musica dipenda dai geni o dall’ambiente. Quello che è certo è che, sin da piccoli, i bambini mostrano una predisposizione alla musica e già dall’età di due mesi preferiscono i suoni consonanti (armoniosi) a quelli dissonanti, secondo gli studi di Laurel Trainor dell’Università di Hamilton, nell’Ontario. «Noi tentiamo di dare un significato unico alla musica, ma essa cambia da cultura a cultura, assumendo valenze diverse», continua Luisa Lopez. Non mancano i generi universali, come le ninnananne, che hanno tratti comuni nelle diverse culture. Infatti, all’età di sei mesi, i bambini reagiscono allo stesso modo alle musiche della loro cultura o di culture diverse. Ma dai 12 mesi in poi viene già percepita una differenza. «L’educazione musicale nei programmi scolastici è importante, sia che si tratti di bambini normodotati o di portatori di handicap, perché stimola tutti i sensi», continua Lopez. «Secondo le ricerche di Wilfried Gruhn dell’Università di Friburgo, i bambini che studiano musica mostrano un vantaggio cognitivo rispetto ai loro coetanei e ottengono un punteggio superiore alla media nei test d’intelligenza». quanto ha rilevato anche Glenn Schnellenberg, psicologo dell’Università di Toronto: i bambini che seguono lezioni di musica per un periodo abbastanza lungo hanno una crescita del quoziente intellettivo maggiore dei loro coetanei. noto anche l’effetto rilassante della musica. A tal punto che c’è chi la vorrebbe introdurre nei reparti di pediatria durante l’esecuzione di esami diagnostici come l’elettroencefalogramma. Uno studio condotto da Joanne Lewy del Beth Israel Medical Center di New York ha dimostrato che la musicoterapia ottiene un effetto sedativo efficace quanto il cloralio idrato, un anestetico usato in pediatria. Altre informazioni arrivano dagli studi sulle lesioni cerebrali. Danni al cervello possono infatti compromettere le abilità musicali, impedendo di riconoscere una melodia o una variazione di tono o ritmo, come nel caso delle amusie, cioè i disturbi di percezione della musica che interessano il 4 per cento della popolazione. In altri casi la musica può essere usata come riabilitazione. «Il canto aiuta pazienti affetti da demenza a memorizzare le parole», afferma Michael Thaut dell’Università del Colorado, «mentre gli esercizi basati sulla musica aiutano i malati di sclerosi a conservare la sincronia dei movimenti». La musica, inoltre, è una passione tutta umana. Le scimmie, per esempio, sembrano non apprezzarla per niente. La musica è quindi un’abilità da noi acquisita a un certo punto dell’evoluzione, anche se non è chiaro a che cosa servisse. Josh McDermott, ricercatore del Massachussetts Institute of Technology (Mit) di Boston, ha messo alcune scimmie in una gabbia a forma di V, costruita apposta per verificare il gradimento degli stimoli sonori provenienti da due altoparlanti posizionati agli estremi del recinto. Le scimmie non si sono soffermate ad ascoltare un accordo che alle nostre orecchie suona bene (per esempio do-mi) più di quanto abbiano fatto per uno di quelli a noi meno gradevoli (do-re). Una certa preferenza, però, i primati l’hanno mostrata per le ninnananne rispetto alla musica elettronica. Ma tra una ninnananna e il silenzio hanno scelto comunque il secondo!