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 2006  febbraio 10 Venerdì calendario

La lettera del signor Gramis ci offre l’opportunità di parlare di un episodio doloroso e ai più oscuro di quella grande tragedia che fu la Seconda guerra mondiale

La lettera del signor Gramis ci offre l’opportunità di parlare di un episodio doloroso e ai più oscuro di quella grande tragedia che fu la Seconda guerra mondiale. Un dramma, forse, come tanti, che però ha interessanti risvolti storici (se ne parlò perfino al processo di Norimberga) e, soprattutto, umani, dal momento che causò la morte di moltissimi soldati italiani. la notte del 12 settembre 1942 e il transatlantico inglese Laconia, con a bordo tremila passeggeri, fra i quali numerose donne e bambini e ben 1.800 soldati italiani catturati in Nord Africa, sta navigando al largo delle coste occidentali dell’Africa, diretto in Inghilterra. Si tratta di un’ex nave passeggeri convertita in un mercantile armato, adibito al trasporto delle truppe. Nella zona incrociano anche cinque sottomarini tedeschi in rotta verso Sud nell’ambito dell’Operazione Eisbär (orso bianco), un’azione ideata dall’ammiraglio Karl Dönitz al fine di colpire il traffico mercantile alleato nell’area del capo di Buona Speranza. A intercettare il Laconia è l’U-156 del capitano di fregata Werner Hartenstein che, dopo un breve inseguimento, lo colpisce con due siluri. Il Laconia comincia ad affondare tra la confusione generale. Hartenstein si avvicina ai rottami alla ricerca del comandante (prezioso bottino di guerra con le sue informazioni), quando sente chiedere aiuto in italiano. I due naufraghi issati a bordo raccontano fatti agghiaccianti. Subito dopo l’attacco, gli inglesi avevano dato ordine alle guardie polacche di non aprire per nessun motivo i gabbioni di ferro nella stiva della nave, dove erano rinchiusi i 1.800 prigionieri italiani, condannandoli così di fatto a morte tanto certa quanto orribile. Intuita la sorte che li attendeva, i soldati si erano scagliati con la forza della disperazione contro le sbarre, riuscendo ad abbatterle nonostante i polacchi ne avessero falcidiati a decine a colpi di fucile e di baionetta. Ma chi era riuscito a scampare dalla bara d’acciaio (e non erano molti) era atteso da una sorte forse peggiore. Le lance del Laconia calate in mare, insufficienti per tutti, erano infatti state occupate dagli inglesi (donne e bambini compresi) e dai polacchi, determinati a usare ogni mezzo per impedire agli italiani di salire a bordo. La lotta, anche per un singolo salvagente, era stata feroce, e a molti di coloro che avevano cercato di salire su una scialuppa erano state amputate le mani o le dita a colpi d’accetta o di baionetta. Chi non era annegato, era finito in pasto agli squali, attirati dal sangue come api sul miele. Quest’ultima fase è ancora in pieno svolgimento, quando Hartenstein ordina di issare immediatamente a bordo più naufraghi possibile (se ne conteranno 193) e di prendere al traino le scialuppe di salvataggio, dove la promiscuità tra vittime e carnefici creava situazioni di forte tensione. Chi era sulle lance saliva a bordo dell’U-boot il tempo necessario per essere rifocillato con minestra o caffè e poi tornava nella sua imbarcazione: a bordo rimanevano soltanto donne, bambini e feriti. Di tutto questo Hartenstein informa con un rapporto cifrato l’ammiraglio Dönitz al Comando di Parigi. Dönitz, contro il parere dello stesso Hitler, che non voleva rischiare neanche uno dei propri sommergibili, dirotta sulla zona altri due U-boot, distanti oltre settecento miglia: sono l’U-506 del capitano Würdermann e l’U-507 del capitano Schacht. Ottiene anche l’invio del sommergibile Cappellini dal Comando italiano Betasom di Bordeaux e di tre navi della Repubblica di Vichy alla fonda nel porto di Dakar (il Gloire, l’Annamite e il Dumont d’Urville). La situazione però è disperata: ora dopo ora, i naufraghi rimasti in mare muoiono a decine, annegati o divorati dagli squali. Hartenstein decide allora di trasmettere un messaggio non criptato in inglese, in cui precisa il punto dell’affondamento e dichiara che nessuna nave nemica disposta a prestare soccorso verrà attaccata. Il messaggio non ha però nessun effetto. Il 15 settembre, due giorni abbondanti dopo il siluramento, arrivano in zona l’U-506, che imbarca 132 italiani da Hartenstein, e nel pomeriggio l’U-507, che in rotta di avvicinamento ha raccolto dal mare altri 153 superstiti. Più distante, il Cappellini aveva raccolto altri naufraghi, rifornendo d’acqua e viveri diverse lance. Il calvario dei naufraghi del Laconia e dei loro soccorritori non è però ancora finito. Il 16 settembre, un quadrimotore americano Liberator, proveniente dalla base segreta dell’Isola di Ascensione, sgancia quattro bombe sull’U-156, nonostante esponga sul ponte un’enorme bandiera della Croce Rossa e nonostante il messaggio di un ufficiale della Royal Air Force: «Qui ufficiale Raf a bordo sommergibile tedesco. Ci sono i naufraghi del Laconia, soldati, civili, donne, bambini». Gli ordigni danneggiano il sommergibile, costringendolo a una rapida immersione e causando la morte di numerosi naufraghi. Gli Stati Uniti ammetteranno solo dopo molti anni di aver ordinato al pilota del Liberator di distruggere il sommergibile tedesco. A questo punto arriva l’ordine di Dönitz: ogni operazione di soccorso va sospesa. A bordo devono rimanere solo gli italiani, che andranno consegnati (come accadrà) alle unità francesi. Gli altri naufraghi devono essere imbarcati sulle scialuppe e lasciati al loro destino (anch’essi verranno poi raccolti dai francesi). Da questo momento le unità che avessero salvato dei naufraghi avrebbero trasgredito a tutti gli effetti gli ordini dell’alto comando tedesco, ordini (noti col nome di Triton Null) che avrebbero costituito il principale capo d’accusa contro Dönitz al processo di Norimberga. Di questa tragedia, che costò la vita a 1.600 persone (di cui ben 1.350 italiane) parliamo con Donatello Bellomo, autore di Prigionieri dell’Oceano (Sperling & Kupfer, 15 euro), l’unico libro scritto sull’argomento. Come si può giustificare il comportamento degli inglesi con i prigionieri del Laconia? «Non era una novità. Una volta parlai con Francesco Tortora, un sommergibilista di Taranto che era a bordo dell’Ascianghi quando fu affondato dagli inglesi (il 23 luglio 1943, ndr). Mi raccontò che, dopo che si furono gettati tutti in mare in cerca di scampo, gli inglesi li mitragliarono. I nostri soldati, tutto sommato, mantenevano ancora un rapporto quasi civile con l’avversario, almeno in mare. Ricordo ad esempio il famoso comandante Salvatore Todaro, di cui perfino gli alleati tedeschi si lamentavano, perché aveva l’abitudine di salvare l’equipaggio delle navi silurate dal suo sommergibile». Qual era lo scopo dell’attacco dell’aereo americano? «Quello di affondare il sottomarino (l’ordine era esplicito) e di fare tabula rasa, nonostante l’U-boot esponesse chiaramente sul ponte la bandiera della Croce Rossa e in quel momento stesse trainando quattro scialuppe stipate di naufraghi. Fu una vigliaccata». Come giudica l’ordine Triton Null di Dönitz? Dönitz fu irritato dal bombardamento dell’U-156 durante un’operazione di salvataggio. Non era più disposto a sopportare perdite in simili occasioni, anche perché aveva agito di sua iniziativa avvertendo Hitler solo in un secondo tempo. Del resto un sottomarino in superficie, per quanto buono fosse il suo avvistatore, era indifeso e non aveva il tempo tecnico per sfuggire con l’immersione a un attacco aereo». Che idea si è fatto di Hartenstein e dei sommergibilisti tedeschi? «I tedeschi furono i primi a capire l’importanza dei sommergibili, e se Hitler avesse dato ascolto a Dönitz (che voleva portarli a 3.000 unità in breve tempo), probabilmente i nazisti avrebbero vinto la guerra. Hartenstein ricordava Rommel, un cavaliere teutonico, un guerriero di razza. Erano uomini che facevano la guerra per la guerra, veri professionisti, anche se spesso molto giovani. Ed erano anche grandissimi marinai, probabilmente i migliori in assoluto. Ancora negli ultimi mesi di guerra si presentavano 2-3.000 volontari al mese per i sommergibili, votati a morta quasi certa. Si pensi che i comandanti dei tre sommergibili coinvolti nel salvataggio dei naufraghi del Laconia, dopo sei mesi erano già tutti morti».