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 2006  febbraio 10 Venerdì calendario

Tra pochi giorni, come a ogni vigilia elettorale, le nostre strade si riempiranno di manifesti colorati per conquistare il voto degli indecisi o confermare convinzioni vecchie di una vita

Tra pochi giorni, come a ogni vigilia elettorale, le nostre strade si riempiranno di manifesti colorati per conquistare il voto degli indecisi o confermare convinzioni vecchie di una vita. un flusso di comunicazione stagionale che però, analizzato negli anni, sa restituirci l’immagine fedele di un Paese complesso attraverso i suoi sentimenti e i suoi modi di pensare. Eppure la storia del manifesto politico italiano ha incrociato uomini e mezzi della pubblicità solo in tempi relativamente recenti, mentre all’estero, in contesti in fase di rapida modernizzazione, non si è mai fatta grande differenza tra vendere un’idea piuttosto che un’automobile o una bibita gassata. Così i manifesti inglesi o americani hanno mutuato da subito linguaggi e malizie grafiche della comunicazione che in Italia hanno invece attecchito molto più tardi, quasi che il mondo della politica avesse un certo pudore (o snobismo?) ad affidarsi a chi vende prodotti di grande consumo. I pubblicitari, del resto, già negli anni Cinquanta ripagavano i politici con altrettanta disistima, come riporta Chiara Ottaviano nel suo La politica sui muri (Rosenberg & Sellier, 16, 20 euro): « talmente banale e inutile questa propaganda che quasi non vale la pena prenderla in considerazione», diceva il responsabile della pubblicità dell’Alfa Romeo; «La tecnica usata non ha nulla di convincente, colpisce soltanto come imponenza dei materiali, ma è molto scadente come qualità» era invece l’opinione dell’esperto della Palmolive. Insomma, una propaganda «orribile», buona solo a «danneggiare i muri delle case». Propaganda, ancora per anni segnata dallo stile fascista, gestita da appositi uffici interni dei partiti, bravissimi a demonizzare l’avversario, un po’ meno a conquistare nuovi voti. I manifesti di queste pagine provengono dai preziosi archivi dell’Istituto Gramsci di Bologna e dell’Istituto per la Storia della Democrazia Repubblicana di Tarquinia. Ma anche dal recente volume Il nemico interno (Donzelli Editore, 27 euro), il cui autore Angelo Ventrone, docente di Storia contemporanea presso l’Università di Macerata, ci aiuta a ricostruire la storia della propaganda politica attraverso i manifesti in Italia dal dopoguerra a oggi. Professore, che tracce lasciarono il fascismo e la guerra sulla propaganda politica successiva? «Un segno profondo. Dal fascismo si ereditarono modelli, slogan e soprattutto l’identificazione dell’avversario politico con il nemico. Per anni nella politica italiana ogni festività, anniversario o elezione si sono trasformati in uno scontro frontale con un avversario che era percepito come il nemico mortale, il portatore del male assoluto. Un nemico interno considerato la quinta colonna del nemico esterno, che era l’Unione Sovietica per i democristiani, gli Stati Uniti per i comunisti, eredità anche questa dell’antibolscevismo e dell’anticapitalismo presenti nel fascismo, che si proponeva come la terza via. E pur di vincere, era la norma falsificare la realtà». Questo scontro come prendeva forma sui manifesti? «Per esempio, i Comitati civici di Luigi Gedda, creati per consentire all’Azione Cattolica di scendere in politica aggirando i veti del Concordato, ereditarono in toto la classica iconografia fascista antibolscevica con tanto di cosacchi che abbeveravano i cavalli nelle fontane di Piazza S. Pietro e di lupi comunisti nascosti sotto pelli d’agnello. La DC sottolineava spesso il rapporto tra PCI e Urss come foriero di morte, distruzione e oppressione, mentre il PCI replicava rappresentando la DC come un grasso capitalista manovrato da Usa e Inghilterra (qui torna la polemica fascista contro le demo-plutocrazie) intenti soltanto a privare l’Italia della propria autonomia economica per sottometterla ai propri interessi. Nel ’68 i contenuti restano sostanzialmente gli stessi, ma la grafica si modifica ulteriormente: secondo la moda inaugurata dai movimenti di contestazione europei, prevale la monocromia nei colori e l’immagine si impoverisce a tutto vantaggio dello scritto, caratterizzato da una forte componente ideologica e satirica». Quando si moderarono i toni? «Alla fine degli anni ’50: da una parte l’alfabetizzazione cresceva e l’elettore si faceva più smaliziato, dall’altra l’ingresso della politica nella neonata televisione aiutò a calmare gli animi: la politica urlata dei manifesti in Tv non funzionava. All’inizio i politici erano ancora timidi, così, anche grazie al moderatore, prevalevano il dialogo e toni più razionali. Del resto gli italiani non hanno mai creduto a questo scontro così manicheo: la saga di Don Camillo e Peppone sta lì a testimoniare come, fortunatamente per la nostra democrazia, tra Centro e Sinistra (per la Destra radicale bisognerà aspettare gli anni ’90) continuassero a esistere spazi di convivenza, un tessuto pre-politico di confronto non violento che impediva la radicalizzazione dello scontro nella società civile. Negli anni ’70 si ebbe un’altra tregua a causa della crisi economica e del dilagare del terrorismo, che spinsero i partiti verso la politica di solidarietà nazionale». Quando si affidarono le campagne elettorali a pubblicitari professionisti? «La DC, come altri partiti minori, cominciò a servirsi di consulenti esterni, psicologi sociali, sondaggisti e grafici solo negli anni ’60. Invece la sezione interna Stampa e propaganda del PCI si arrangiò fino a tutti gli anni ’70 e solo negli anni ’80 cominciò ad appaltare i servizi ad agenzie esterne. Attualmente tutti i partiti delegano esternamente realizzazione e pianificazione delle campagne elettorali». Oggi qual è la situazione? «Le campagne elettorali si sono allungate, perché la legge sulla par condicio in Tv limita gli spazi a disposizione. Così chi ha fondi sufficienti, si muove per tempo rivalutando proprio il manifesto, che torna a essere l’ideale per guadagnare in visibilità con largo anticipo. E in un’epoca caratterizzata anche dal crollo delle ideologie, la propaganda diventa molto più ”televisiva” e invasiva rispetto al passato: quello che ”funziona” è soprattutto il viso del candidato, che viene moltiplicato in serie nella speranza che l’elettore se lo ricordi più di quello dei concorrenti. Insomma, siamo passati definitivamente dalla propaganda alla comunicazione politica, dalla persuasione alla seduzione. Non bisogna più convincere (del resto la parola qui ha sempre meno importanza), ma conquistare l’attenzione e le emozioni dell’elettore. E il primo a capirlo, negli anni ’80, era stato Craxi». Snobbati comizi e volantinaggi, oggi i guru della pubblicità blandiscono gli elettori con spot intriganti, materiale personalizzato inviato a domicilio, tabelloni 6x3 visibili da un’auto in corsa o perfino Sms. La politica ha fatto il suo ingresso nel millennio del mercato e della tecnologia e ne ha sposate le regole, ma i cari vecchi manifesti sono ancora lì, sotto gli occhi di tutti, a raccontare la nostra storia.