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 2006  febbraio 10 Venerdì calendario

Il politologo Giovanni Di Capua analizza settant’anni di propaganda politica italiana attraverso l’uso della satira, dell’ideologia e dell’attacco attraverso i manifesti

Il politologo Giovanni Di Capua analizza settant’anni di propaganda politica italiana attraverso l’uso della satira, dell’ideologia e dell’attacco attraverso i manifesti. Il confine tra propaganda e satira politica è, sempre e ovunque, molto esile. A maggior ragione in un’Italia da secoli divisa tra guelfi e ghibellini e, nel Novecento, fra proletariato in crescita culturale e borghesia in crisi di rappresentanza. Le contrapposizioni fra interventisti e neutralisti e fra popolari di don Sturzo e socialisti di Turati si espressero attraverso le avverse pubblicazioni degli anni Dieci e primi Venti, nei quali primeggiò L’Asino di Gabriele Galantara, anticlericale e barricadiero. Ma poi il fascismo, imponendo toni e tratti aggressivi verso gli avversari interni – gli operai in sciopero permanente, i ”pipini” sturziani – e quelli esterni – francesi, inglesi, russi e americani ”, specie coi manifesti di Gino Boccasile, fece della satira un’arma di guerra politica: carica di odio per i nemici; di amore per le mamme d’Italia che sfornavano figli per la patria. La guerra civile 1943-1945 ripropose mentalità, tecniche e disegnatori sperimentati dal regime; e non fu estranea al consolidamento della animosità e rissosità dei manifesti del secondo dopoguerra italiano. Si mantenne e sviluppò – specie fra il 1946 e tutti gli anni Sessanta - l’idea che la cartellonistica, in una società ancora abbondantemente analfabeta, costituisse il più efficace strumento di comunicazione e affabulazione politica. Don Basilio, il Calendario del Popolo, Popolo e Libertà e Candido - per i loro disegni, più che per gli scritti - funsero da riferimenti contrapposti di schieramenti antagonistici, fortemente ideologizzati. Il manifesto politico risentì di quella permanente guerra civile che continuava, usando le vignette in luogo delle armi clandestine. E si uniformò sulle medesime tecniche comunicative, quasi emarginando i simboli dei partiti e i loro stessi programmi. Persino i comizi di massa si riducevano ad amplificare le espressioni rancorose, radicali, sanguinolente, indiscutibili dei manifesti. Così da accentuare nella propaganda, anche quella delle forze moderate, il contrasto, l’inconciliabilità, l’ideologismo incompenetrabile. Prevalse, assieme alla linea – vignettistica e politica – dell’odio tra avversari, il valore del ”no”, del rifiuto di tutto quanto fosse riferibile al potere o al ”nemico”. Questo convincimento diffuso, semplice e chiaro, marchiò, negli anni Settanta, il referendarismo. Il referendum (in Italia non propositivo, ma soltanto abrogativo) si appropriò opportunamente del concetto antagonista del ”no”. E il ”no” diventava vincente in sé, anche indipendentemente dai quesiti referendari, di solito molto complessi ed incomprensibili. La cartellonistica relativa rendeva persino necessario il ricorso a visioni apocalittiche della vita o del diritto a una vita diversa. * Presidente dell’Istituto per la Storia della Democrazia Repubblicana