[1] Domenico Quirico, ཿLa Stampa 24/5/2005; [2] Timothy Garton Ash, ཿla Repubblica 26/5/2005; [3] Lucio Caracciolo, ཿL’Espresso 19/5/2005; [4] Luciana Castellina, ཿil manifesto 25/5/2005; [5] Guido Ambrosino, ཿil manifesto 28/5/2005; [6] Tahar Ben Je, 24 maggio 2005
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 30 MAGGIO 2005
L’odio francese per l’Europa dell’Est.
La Francia non è più la stessa. Il referendum sul trattato costituzionale ha mobilitato, diviso, scavato trincee tra i partiti e all’interno dei partiti, alcuni leader hanno perso parte del loro carisma, altri hanno trovato un’occasione di riscatto. Domenico Quirico: « emerso il meglio e il peggio del Paese». [1] Timothy Garton Ash: « dal maggio 1940 che il resto d’Europa non guarda con tanta attenzione e trepidazione agli avvenimenti in Francia. Sessantacinque anni fa era il futuro di un’Europa in guerra a dipendere dai francesi. Oggi è il futuro di un’Europa in pace». [2] Lucio Caracciolo: «Già due volte la Francia fu chiamata in passato a dire una parola decisiva sul futuro dell’Europa. La prima, nel 1954, relativamente alla Comunità europea di Difesa. La seconda, nel 1992, quando si trattò di approvare il trattato di Maastricht. Nel primo caso un voto parlamentare sancì di strettissima misura il rifiuto dell’integrazione militare, nel secondo caso, un voto popolare, anch’esso alquanto risicato, diede luce verde all’Unione economica e monetaria». [3]
La Costituzione europea poteva essere approvata con un voto del Parlamento. Come è successo in Italia «a conclusione di un dibattito parlamentare di cui nessuno si è accorto anche perché nemmeno Rifondazione comunista, che pure ha votato ”no”, e i movimenti che si sono pronunciati contro, ha fatto qualcosa per mobilitare l’opinione pubblica» (Luciana Castellina). [4] O come ha fatto la Germania: prima il Bundestag poi, venerdì scorso, il Bundesrat, la camera dei Länder, che l’ha approvata a stragrande maggioranza con la sola opposizione dei tre rappresentanti del Mecklemburgo-Pomerania anteriore (che si sono astenuti). [5] Tahar Ben Jelloun: «Ma Jacques Chirac, senza preoccuparsi delle difficoltà che avrebbe incontrato per farla accettare all’opinione pubblica del suo paese, ha indetto un referendum. Un errore di strategia, una grande occasione per dar fiato al malcontento». [6] Robert Badinter: «Visto che non si è chiesto ai cittadini se erano a favore dell’allargamento a 25 dell’Unione, è diventato indispensabile interpellarli almeno su cosa pensano della Costituzione tramite un referendum». [7]
Un referendum è un po’come gettare i dadi. Bernardo Valli: « un’impresa rischiosa, aleatoria. La gente va dritta, sparata, alle urne e vota ”sì” o ”no”. Il più delle volte senza che ci sia stata prima una tappa preliminare durante la quale si sono discusse le scelte. Uno specialista internazionale della materia, il costituzionalista Bruce Ackerman, definisce populista e indegna di una democrazia moderna quella pratica napoleonica. E il professore (della Yale Law School) ha rinnovato l’accusa, dalla sua cattedra americana, all’annuncio del referendum sulla Costituzione europea. Accusa in questo caso condivisa, anzi appesantita, da non pochi europei, secondo i quali, con la sua iniziativa, Jacques Chirac non sarebbe ricorso soltanto a una pratica desueta, ma avrebbe assecondato il solito, irresistibile vizio francese: si sarebbe arrogato il diritto di far dipendere dagli umori nazionali l’immediato futuro di una comunità in cui adesso convivono ventiquattro altri Paesi». [8]
Le élite politiche hanno a lungo portato avanti da sole l’unificazione europea. Jürgen Habermas: «Finché tutti se ne avvantaggiavano, i cittadini erano soddisfatti. Finora il progetto europeo si è legittimato da sé, grazie ai suoi risultati. Ma a fronte dei conflitti distributivi che si profilano nell’Europa dei venticinque, una legittimazione basata sul puro e semplice output non può più bastare. I cittadini rifiutano di essere diretti con metodi burocratici, e anche nei Paesi più europeisti il grado di accettazione è in calo. Per di più, il tandem franco-tedesco ha perso il ritmo, e non è più in condizioni di indicare la direzione di marcia. In questa situazione, il governo francese ha avuto il coraggio di sottoporre la ratifica della Costituzione a un referendum. Da tedesco deluso dalla pusillanimità dei politici del mio Paese, invidio la Francia». [9]
L’istituto Louis Harris ha fatto un’analisi del voto. Anna Maria Merlo: «Ne risulta che sono a grande maggioranza a favore del ”sì” gli imprenditori, i quadri dirigenti, le professioni liberali e intellettuali superiori. Ampiamente pro-Costituzione anche gli elettori di più di 65 anni, che hanno vissuto le tappe della costruzione europea e sono sensibili all’alleanza franco-tedesca che ha messo fine a secoli di guerre. I giovanissimi, di meno di 24 anni, sono anch’essi a favore, perché sono nati dentro l’Unione e non vedono altra prospettiva. Sul fronte opposto, a grande maggioranza a favore del ”no”, gli operai e gli impiegati, cioè chi ha pagato più caro il prezzo della mondializzazione, con le delocalizzazioni e la disoccupazione». [10] Roland Cayrol, presidente del Csa, uno dei principali istituti demoscopici del paese: «In chi vota ”no” c’è una sorta di esultanza, di piacere. Nelle interviste telefoniche, i partigiani del ”sì” rispondono razionalmente, quelli che votano ”no” godono a dire ”no”. come dire merde a tutti quelli che ci governano». [11]
Dietro il ”No” ci sono strane paure. Ben Jelloun: «La Francia è una società invecchiata, che ha difficoltà ad accettare il cambiamento, ad adattarsi e introdurre riforme rese necessarie dalla globalizzazione. Paure che assomigliano a quelle manifestate da alcuni nei riguardi degli stranieri, dei quali pure si ha bisogno, ma che non si è disposti ad ammettere alla propria tavola. Godiamo di una situazione ”felice”, ma pochi francesi la vivono con gioia. E nello stesso tempo questa rigidità, unita all’estrema pesantezza burocratica, alla difesa sistematica, attraverso lo sciopero, delle conquiste sociali e talvolta di alcuni privilegi, rendono la vita difficile in questa nazione. Sempre più numerosi imprenditori francesi si trasferiscono all’estero poiché il paese non funziona come dovrebbe, ovvero con elasticità e nel rispetto della libertà». [6]
La Francia è malata. Giampiero Martinotti: «Protesta sociale e corporativismi alimentano il voto contro la Costituzione europea: se alle presidenziali del 2002 l’insicurezza fu al centro del dibattito, adesso sono le delocalizzazioni a tenere banco. E tutto si riassume in una formula: la paura dell’idraulico polacco, alimentata dalla famosa direttiva Bolkenstein, per il momento ritirata dalla Commissione, che secondo i suoi detrattori avrebbe permesso alle società di servizi dell’Est di lavorare negli altri paesi dell’Unione con salari e regole sociali del paese di origine. La Costituzione, con tutto questo, c’entra solo di sguincio. A preoccupare i francesi è l’allargamento dell’Unione europea a est, il possibile dumping sociale (compreso quello dell’industria tessile cinese), l’incapacità della classe politica nazionale a fornire una risposta credibile alle angosce sociali del paese. Un dato riassume tutto: la disoccupazione è al 10,2 per cento e dal 1973 non è mai scesa sotto la soglia del 7,5 per cento». [12]
La Turchia non c’entra con la Costituzione europea. Valli: «Il suo eventuale ingresso nell’Unione non avverrà prima di una decina d’anni; e comunque, ha promesso Chirac, sarà oggetto di un referendum. Ma la sottoscrizione del testo da parte della Turchia in quanto nazione associata (avvenuta a Roma, nell’ottobre scorso, quando i venticinque capi di Stato e di governo dei Paesi membri lo firmarono ufficialmente), fa dire a Philippe de Villiers che essa è ormai alle porte. L’invasione appare cosi imminente. Benché falso, l’annuncio suscita emozione». [13] Quirico: "In testa alla classifica dei detestati c’è una entità generica e dipinta a pennellate larghe: quelli dell’est. Polacchi, romeni, cechi, lituani: nei comizi non si fanno certo i voli dello spirito. Tutti uguali: arretrati e avidi, disposti a tutto. Quei paesi sembrano messi sulla carta geografica per trasferirci le imprese nazionali e importare manodopera pronta a svaligiare il paradiso del Welfare francese». [14]
La Storia non ci aspetterà. Jean-Marie Colombani: «Nei negoziati internazionali di un domani, quando si tratterà di produrre norme universali - sul commercio, la cultura, l’ambiente, l’energia, l’immigrazione, tanto per fare qualche esempio, - ma anche quando all’Onu si tratterà di guerra e di pace, intorno al tavolo siederanno tre-quattro pesi massimi: gli Stati Uniti e, forse, lo schieramento latinoamericano, la Cina, l’India. E l’Europa, se si deciderà. Se lo vorrà. [...] L’Europa è un indirizzo e un marchio commerciale. Allargata a 25, e poi a 30, se rimane in questo stato diventerà probabilmente ingovernabile, ritornando alla gabbia della ”zona di libero scambio”, l’Europa-filtro riempita delle ambizioni dei nazionalismi. La scelta è dunque solo questa: la ratificazione di un progetto che dà il via all’esistenza politica dell’Europa, oppure la conservazione di uno status quo privo di funzioni politiche». [15]
I popoli europei sono a un bivio. Barbara Spinelli: «Da un lato sono prigionieri del mito che fonda lo Stato nazione, e ad esso continuano a essere aggrappati nonostante la sovranità esclusivamente nazionale faccia acqua da tutte le parti. Dall’altro si comportano come se l’Europa già esistesse, perfettamente organizzata, e si trattasse ora di decidere quale politica seguire al suo interno: se una politica più liberista, o più sociale. Questo significa che l’europeizzazione dei popoli è ormai iscritta nei fatti, anche se è mal adoperata e a volte cinicamente sfruttata dalle élite politiche di destra o di sinistra. la tesi d’un libro indispensabile sullo stato dell’Unione, scritto l’anno scorso in Germania dai sociologi Ulrich Beck e Edgar Grande (Das kosmopolitische Europa, Suhrkamp 2004). L’europeizzazione dei popoli è secondo gli autori già ampiamente diffusa nell’Unione, e sono in genere le classi politiche o intellettuali (giornalisti, esperti, sociologi) a indulgere nel ”nazionalismo metodologico” dei giudizi e previsioni». [16]
Le élite politiche e intellettuali si lamentano di mancanze europee. Che non sono mancanze, non appena si smette di osservare l’Unione «con l’occhiale dell’auto-inganno nazionalista». Spinelli: «Molti sono i luoghi comuni, che saltano grazie a quest’analisi sull’Europa cosmopolita. Ad esempio, non ha più senso alcuno denunciare l’assenza di un dèmos europeo, di un’unica popolazione con ben definita identità. Un popolo simile è concepibile all’interno dello Stato nazione, non nella variegata Europa dove cittadini e nazioni sono uguali di fronte alla legge e però restano diversi. Il dèmos europeo non ha nulla di omogeneo, e in fondo non è unito neppure dalle radici religiose, più o meno forti nei singoli Stati. unito dalla diversità stessa, come avviene appunto nel cosmopolitismo. Ha le radici tipiche di un impero, non di uno Stato nazione omologato a forza tramite un monarca, un’idea etnica, o anche un potere egemone universalista. Viene congiunto da un insieme di norme, risponde a più centri di comando che non si escludono a vicenda». [16]
I poteri che gli Stati perdono sul piano nazionale si riconquistano raddoppiati sul piano europeo. Spinelli: «Alcuni vale la pena preservarli. Altri vale la pena trasferirli per rigenerarli. Il gioco non è a somma zero (i poteri sovrannazionali possono guadagnare solo quei poteri che strappano alle istituzioni nazionali - l’Europa o diventa tutta federale o resta tutta intergovernativa) ma è un gioco a somma positiva (tramite cooperazione si ottiene un guadagno maggiore in sovranità di quel che s’ottiene non cooperando). Alla logica dell’alternativa secca (aut-aut) si sostituisce la logica del sia-sia (i poteri sono sia nazionali sia comunitari). Il modello non è più lo Stato nazione ma l’impero: non l’impero moderno dell’800-’900 e neppure l’impero egemonico descritto da Antonio Negri e Michael Hardt (Impero, Rizzoli 2002). un impero cosmopolita, che si dà regole ma non un solo comando centrale. In esso, il senso nazionale non coincide più con un unico Stato. la seconda grande separazione che l’Europa deve compiere per fronteggiare la propria violenza, scrivono Beck e Grande: ”Dopo aver separato lo Stato dalla religione nel trattato di Vestfalia, tocca adesso separare lo Stato dalla nazione”». [16]
Sarà anche in crisi, questa Europa di oggi, ma da che mondo è mondo lo è sempre stata. Edoardo Castagna: «Fratture, scontri, contrapposizioni hanno accompagnato la turbolenta storia del nostro continente e della nostra cultura. Raramente si è visto un equilibrio stabile; nei secoli gli europei hanno sempre arrancato alla ricerca di un ordine definitivo, ma la più volte evocata ”fine della storia” non è mai arrivata». Claudio Ciancio: «La fine della crisi dell’Europa sarebbe la fine dell’Europa stessa. La nostra cultura è da sempre attraversata da fratture, anche laceranti. Ma è proprio grazie al continuo confronto che l’Occidente è diventato il luogo della libertà». [17]
Lo spirito dell’Europa è la crisi o il suo superamento? Ciancio: «Spirito dell’Europa è il tentativo di cogliere una pacificazione tra le fratture, ma sapendo che si tratta sempre di soluzioni provvisorie, instabili. Con il tempo, l’Europa è diventata sempre più consapevole di questa situazione, e si può collocare l’inizio della modernità proprio nel momento in cui la nostra cultura ha preso coscienza della frattura originaria che la attraversa. [...] Ogni nuova sintesi, ogni superamento delle fratture è un tentativo di negare la struttura portante dell’identità europea: la tensione tra i poli opposti. La crisi è ineliminabile, ma va pensata in termini positivi: è questa l’identità, sempre precaria, dell’Europa». [17]