[1] ཿIl Messaggero 13/5/2005; Mario Sensini, ཿCorriere della Sera 13/5/2005; [2] Enrico Cisnetto, ཿIl Messaggero 13/5/2005; [3] Guglielmo Ragozzino, ཿil manifesto 13/5/2005; [4] Corrado Giustiniani, ཿIl Messaggero 13/5/2005; [5] Carlo Bastasin, ཿLa S, 13 maggio 2005
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 16 MAGGIO 2005
L’Italia va smontata e poi rimontata daccapo.
Nel primo trimestre del 2005 il pil italiano è diminuito dello 0,5% rispetto al precedente. Poiché c’era stato un calo anche negli ultimi tre mesi del 2004, gli economisti parlano di «recessione tecnica», che secondo la definizione scatta con due risultati negativi consecutivi, non importa di quale entità: l’idea è che una flessione può essere casuale, due segnalano un problema duraturo. [1] Enrico Cisnetto: «Non sarebbe niente di drammatico, anzi sarebbe fisiologico, se come di solito avviene (vedi gli Usa nei primi nove mesi del 2001) interrompesse un ciclo di congiuntura positiva, ma essendo invece la coda di una stagnazione infinita, si configura come una sorta di paralisi progressiva che rischia di bloccare i movimenti del sistema-paese e di rendere irreversibilmente compromesse alcune sue funzioni vitali. Insomma, il famoso declino». [2]
La produzione industriale (primo trimestre) è diminuita in un anno del 5,2%. Tenuto conto dei giorni lavorativi nei due periodi, la riduzione è del 2,9% (sesto segno meno consecutivo). La situazione è preoccupante in molti comparti: la crisi del tessile-abbigliamento (-7%) e del comparto pelli e calzature (-11,3%), dipende dalla concorrenza cinese. Il problema è che sono in crisi pure la produzione di mobili (-10,8%), di apparecchi elettrici di precisione (-8,3%), di mezzi di trasporto (-4,2%). [3] La nostra industria è in declino da anni. Pierluigi Bersani (che se n’è occupato da ministro con Prodi e D’Alema): «Facendo 100 la produzione del 2000 oggi siamo arrivati a 94. Anzi a 92, se guardiamo al manifatturiero, senza l’energia. Otto punti in meno, non compensati da una crescita dei servizi. Pazzesco. L’industria conta il 22 per cento del Pil, e ha trainato la recessione. Negli altri paesi invece si è cresciuti, anche se di poco». [4]
Per oltre un decennio, la Germania ci ha fatto compagnia tra i grandi malati dell’economia europea. Carlo Bastasin: «Germania e Italia hanno strutture economiche abbastanza simili, sono le due economie più orientate all’export dell’area euro e sono abbastanza integrate, tanto che in passato si stimava che ben un terzo della variazione del pil italiano dipendesse dal ciclo economico tedesco. Da ieri non sembra più che i due vagoni facciano parte dello stesso treno. Al posto del vagone italiano, la Germania traina (e ne è trainata) i vagoni dei Paesi dell’Est europeo». [5] La Germania ha chiuso il primo trimestre a +1% (il doppio della media Ue). Cisnetto: «Esso è frutto di una strategia paese che, partendo dal dire la verità ai tedeschi, è andata nella direzione di un rafforzamento dell’apparato produttivo in chiave esportativa pur pagando il prezzo di una caduta verticale dei consumi». [2]
La Germania ha ritrovato la leadership competitiva mondiale. Bastasin: «Si è trattato niente meno che di abbandonare il modello corporativo (delle élite orizzontali), per accettare almeno in parte la durezza della società verticale del merito. Tutto ciò con un governo di sinistra e di modesta personalità. I problemi italiani sono così noti che non vale la pena elencarli. Ma il ”distacco” dal resto d’Europa dà almeno due conferme: è avvenuto quando l’apprezzamento dell’euro ha aggravato il peggioramento ”reale” del cambio, cioè l’effetto della maggiore inflazione interna italiana misurata attraverso i prezzi dei servizi. Mentre in Germania la concorrenza faceva calare il prezzo dei servizi, in Italia continuava a crescere il costo di energia, banche, tlc, libere professioni e di tutti quei capitoli protetti (istituzionalmente!) con tariffe amministrate dal governo, o da istituzioni pubbliche o da influenti lobby professionali. Nel momento in cui era necessario essere più competitivi, il corporativismo italiano ha prosciugato le risorse disponibili a un Paese già povero di capacità imprenditoriali di ampio progetto». [5] La settimana scorsa gli svizzeri dell’Imd hanno declassato l’Italia, ormai 53ª nella graduatoria mondiale dell’efficienza. [6]
Negli ultimi quattro anni la competitività italiana in Eurolandia è scesa del 25%. Ci fosse la lira, ci sarebbe da aspettarsi una svalutazione. Philippe Cotis, capoeconomista dell’Ocse (il club dei Paesi avanzati): «Ma c’è l’euro e il rischio è un effetto di schiacciamento. In economia ci sono regioni che deperiscono. In Italia si è visto con il Mezzogiorno dopo l’unificazione cosa può accadere integrando entità poco omogenee. Sono fenomeni di devitalizzazione di lungo periodo che possono succedere». Come se ne esce? «Riformando il settore protetto. Con molta più concorrenza nell’energia, nelle telecomunicazioni, nella distribuzione, nei servizi finanziari, nelle professioni. Ciò frenerà i prezzi. A quel punto bisogna fare come Jacques Delors alle Finanze nell’83: in cambio di prezzi sotto controllo, chiese ai lavoratori di accettare aumenti moderati per qualche anno. l’equivalente di una svalutazione. Solo così si recupera competitività sui costi all’export. Senza, si continua solo a perdere quote di mercato su quote di mercato». [7]
Il costo della previdenza italiana è dieci volte superiore a quello inglese. Montezemolo, presidente di Confindustria, se n’è lamentato salutando l’assemblea di Confagricoltura. Poi ha elencato le «5-6, non emergenze, ma priorità che accomunano le imprese italiane»: taglio dell’Irap («bene che il governo abbia manifestato l’intenzione di intervenire»), maggiore concorrenza, meno burocrazia, riduzione del costo del lavoro e dell’energia, stimoli all’innovazione e alla ricerca e sviluppo. [8] Guglielmo Ragozzino: « un non senso pensare che molti o tutti i comparti industriali stanno uscendo dal mercato, interno e internazionale, perché in Italia si pagano troppe tasse (come pensa Silvio Berlusconi), oppure si lavora troppo poco, guadagnando troppo (come pensa Berlusconi Silvio). Il fatto è che in questi tempi grandi imprese, medie imprese, piccole imprese, con l’aiuto del sistema bancario, trascurano l’attività industriale, riducono gli investimenti produttivi, pensano a raggiungere maggiori profitti, oppure soltanto a quadrare i conti, con investimenti di carattere finanziario o speculativo». [3]
La situazione italiana dipende da varie ragioni. Giancarlo Galli: «Da noi, sia il pubblico (rare eccezioni Eni e Enel), sia il privato, ben poco investono nella ricerca; il sistema bancario, spina dorsale di qualunque economia, è da anni oggetto di manovre affaristiche che lo deviano dalla sua funzione primaria. Aziende già leader, dalla Fiat all’Alitalia, in lotta per la sopravvivenza, navigano fra vaghi propositi di risanamento, alleanze internazionali e bracci di ferro col corporativismo sindacale. Quello che ha reso le nostre ferrovie, le nostre aviolinee fra le meno affidabili. Per dire: in Germania, uno sciopero è evento; da noi lo si dichiara a ogni pie’ sospinto, con gli statali perennemente sul piede di guerra. E le riforme continuamente rinviate, le imprese che da Nord a Sud chiedono senza spiegare il concambio, la litania senza fine dei rinnovi contrattuali? Ben poco insomma funziona, e si ha l’impressione che i politici vivano in un ”loro mondo”, parallelo a quello reale. Non esistono più, al di là della retorica, ”poteri forti”, in Italia. Così, la sommatoria delle debolezze, sempre più spesso compromissorie e avide, ha per prodotto finale la recessione». [6]
La malattia non è leggera, né facile da curare, né interamente imputabile a questo governo. Mario Deaglio: «Se si considerano i rimedi possibili nel breve termine, appare ormai evidente che una semplice politica di sgravi fiscali non è sufficiente al rilancio, e forse neppure al sostegno, della domanda. I soldi non versati al fisco vengono in buona parte tenuti in banca e non spesi da cittadini e imprese timorosi del domani, oppure servono a comprare prodotti provenienti, in misura sempre maggiore, dall’estero. Convertiti in spesa pubblica, gli stessi soldi potrebbero avere, a certe condizioni, un effetto di stimolo maggiore, anche se probabilmente non risolutivo; occorre proseguire sulla strada di riforme già percorsa con successo da altri Paesi, senza scartare l’eventualità di un inasprimento fiscale, che si traduca in un aumento mirato di spese in settori in cui l’Italia ha accumulato debolezze». [9]
I problemi italiani sono di natura strutturale. E come tali vanno trattati. Cisnetto: «Cioè con rimedi i cui effetti positivi non possono che essere misurati su tempi medio-lunghi, evitando di sprecare le poche risorse a disposizione o, peggio, di forzare il deficit con interventi tampone, che nel migliore dei casi producono soltanto qualche momentaneo e illusorio effetto lenitivo. Come è stata la disastrosa, oltre che ondivaga, politica fiscale di questo governo. Ma come lo sono state le non meno miopi scelte del centro-sinistra nella scorsa legislatura. Insomma, l’Italia è raffigurabile come una macchina che ha perso progressivamente velocità e la sua classe dirigente come un automobilista che, non essendosi accorto o non volendo vedere che quel rallentamento dipende dal fatto che si sono persi per strada pezzi fondamentali del motore, pretende di far ripartire l’auto semplicemente mettendo un po’ di benzina (poca, peraltro)». [2]
Una causa strutturale del «declino»: il disastro della struttura governativa, statuale, ministeriale italiana. Luciano Gallino: «Spezzettata in mille competenze, perciò non in grado di mettere in piedi una politica industriale capace di promozione, coordinamento, scelta di settori, attivazione delle forze che ci sono in campo imprenditoriale, sindacale, regionale, e così via. Basti guardare gli organigrammi degli altri principali paesi europei, dove le competenze fondamentali sono riunite in un unico ministero, e poi considerare l’Italia: noi abbiamo il ministero dell’economia che è quel che rimane - un pezzo ancora grosso - delle partecipazioni statali, poi il ministero delle Attività produttive, che però non è propriamente un ministero dell’industria, poi i ministeri della Ricerca scientifica e tecnologica, del Lavoro... Non si può. In realtà questa sarebbe una riforma da fare in quattro e quattr’otto, sol che qualcuno abbia la volontà, e la forza politica di farlo. Il fatto è che la frammentazione dei ministeri, ahimé, l’ha prodotta il proprio il centrosinistra...». [10]
L’Italia è come un bellissimo meccano, purtroppo è montato male. Francesco Giavazzi: «Ci sono qua e là negli ingranaggi dei cunei che bloccano i movimenti; il risultato è che il Meccano brilla, ma non si muove e se cerchi di spingerlo si capovolge. Non c’è altro da fare che smontarlo, e poi rimontarlo pezzo per pezzo. Credo che questa bella similitudine sia di Romano Prodi, nove anni fa, in uno dei primi giorni del suo governo. Poi, per entrare nell’euro, dovette occuparsi, giustamente, di macroeconomia e non ebbe più tempo per dar seguito a quell’intuizione intelligente. Berlusconi ci promise di capovolgere il Paese come un guanto: la misura del suo fallimento la si legge, prima ancora che nei dati dell’Istat, nella relazione che l’Autorità Antitrust ha inviato al Parlamento a commento delle norme sulla competitività approvate definitivamente giovedì. Riferendosi agli Ordini professionali, l’Autorità scrive: ”La competitività dei professionisti italiani richiede un profondo rinnovamento del sistema degli Ordini, ma dal provvedimento del governo non emerge alcun ripensamento del loro ruolo”. Piccole cose, qualcuno dirà. Nulla di più sbagliato». [11]
Berlusconi dà la colpa all’euro e al patto di stabilità. Giavazzi: «Ora che il patto è stato modificato annuncia una Finanziaria per lo sviluppo e incomincerà tagliando l’Irap senza preoccuparsi di come far fronte alla perdita di gettito. evidentemente la strada sbagliata. Il rischio è che il Meccano si capovolga, travolto dalla perdita di credibilità nei mercati finanziari. Molti temono le sparate di Bertinotti sulla proprietà privata e l’ipoteca che la sinistra estrema potrebbe esercitare su un governo Prodi. Non è questo, secondo me, il vero rischio per la nostra economia. Bensì che le mille piccole rendite che si arricchiscono spostando il Meccano e impedendogli di funzionare l’abbiano vinta anche con il professor Prodi». [11]
Al governo arrivano critiche da destra e da sinistra. Dalla Confindustria e dalle altre organizzazioni di categoria. Galapagos: «Ormai tutti si smarcano aspettando (spesso per opportunismo, per massimizzare i benefici delle briciole della politica economica) la catarsi: la vittoria del centro sinistra. Ma poi? Finora da sinistra sono arrivate solo critiche alla politica economica del governo. Le proposte alternative - ci dicono - sono segretate in laboratorio. Paura che il governo possa copiarle? Per carità: questo governo non copia da nessuno: va avanti sulla sua politica classista. Il problema è che a sinistra le idee sono poche. E per di più confuse e con la paura di uscire dal seminato di una tendenza internazionale codificata. Il risultato rischia di essere un disastroso Prodi-bis che fa stringere la cinghia per risanare i conti pubblici, impegnato unicamente in una - non disdicevole - corretta amministrazione della cosa pubblica». [12]
Serve una politica industriale. Gallino: «Significa scegliere, e compiere scelte che possono anche essere dure, fonte di problemi, di tensioni... Per esempio rendersi conto che gran parte del made in Italy low cost, adesso che piovono i manufatti dalla Cina, non regge, non ha più senso: ma questo implicherebbe, naturalmente, uno spostamento di forze di lavoro dell’ordine di centinaia di migliaia di persone da un settore all’altro, e sapendo che non tutti possono assorbire una tale massa di lavoratori. Noi abbiamo pure, già adesso, un certo numero di settori che vanno bene. ”Scegliere” vuol dire liberarsi dei settori di debolezza e concentrarsi sui punti di forza; e magari inventarne anche di nuovi. Intanto già oggi, per esempio, la produzione di macchine per automazione industriale nel confezionamento, in cui l’Italia è un leader mondiale. Per esempio l’acciaio: l’Italia è la seconda potenza potenza siderurgica d’Europa dietro la Germania, produce il doppio della Francia e più del Regno unito: e se qualche anno fa c’era un problema di qualità del prodotto, oggi con l’espansione di Cina e India, con la crescita della domanda mondiale d’acciaio, si vende qualunque cosa a qualunque prezzo e condizione». [10]
Il futuro dell’Italia è nell’industria. Pasquale Pistorio, vicepresidente di Confindustria: «Chi pensa di trasformarlo in un mega parco giochi, fatto di turismo, cibo e moda, lavora troppo di fantasia. Si deve puntare sulla ricerca e sull’innovazione. Il segno più evidente delle nostre difficoltà sta soprattutto in un numero: le esportazioni di prodotti ad alto contenuto tecnologico rappresentano da noi il 12 per cento del totale dell’export, contro una media europea che raggiunge il 23 per cento. Ma con l’Irlanda che tocca il 58 per cento, la Gran Bretagna il 38, la Finlandia e la Francia con più del 24 per cento. Questi sono i numeri, né di destra né di sinistra». [13]