Filippo Ceccarelli la Repubblica, 22/04/2005, 22 aprile 2005
Minestrone, pasticcio, spezzatino, fritto misto, la Repubblica, venerdì 22 aprile 2005 Più che nello studio cosiddetto «alla vetrata», da ieri le consultazioni sono tornate in vetrina
Minestrone, pasticcio, spezzatino, fritto misto, la Repubblica, venerdì 22 aprile 2005 Più che nello studio cosiddetto «alla vetrata», da ieri le consultazioni sono tornate in vetrina. Si chiede scusa per il facile gioco di parole, ma nonostante ogni buon proposito questo estenuante rituale continua a riflettere come dietro a un cristallo lo stato della vita pubblica; e quando il calendario e il protocollo arrivano a comprendere 28 delegazioni, beh, lo sfascio politico riluce nella sua più radiosa evidenza. La Prima Repubblica c’entra fino a un certo punto. Per certi versi era quella una stagione di maggiore sobrietà quantitativa. proprio il suo rovinoso esaurimento, se mai, che ha portato alla proliferazione di partitini e gruppi parlamentari, tutti sempre molto smaniosi di farsi consultare dal Capo dello Stato, e ancora di più di beccarsi cinque minuti di visibilità. E comunque, per gli appassionati di statistica: 26 delegazioni salirono al Colle prima delle elezioni del 1996; e ben 29 furono previste nella crisi di governo del governo D’Alema (dicembre 1999), anche se poi per fortuna, o per pudore, o per carità istituzionale i loro rappresentanti vennero raggruppati. E comunque: pure nelle crisi di governo della Seconda Repubblica, al Quirinale c’è da mettere nel conto un turn over che coinvolge qualche centinaio di persone. C’è anche da dire che gli antichi padri diffidavano dell’affollamento consultatorio, preferendogli giochini più tortuosi e raffinati. Nell’inverno del 1979, per dire, al crollo della solidarietà nazionale, Sandro Pertini si limitò a consultare Andreotti, Saragat e La Malfa, separatamente, convocandoli a distanza di un quarto d’ora l’uno dall’altro e ospitandoli ognuno in una diversa stanza per evitare che s’incontrassero. A ciascuno di loro offrì la presidenza del Consiglio, con il vincolo però di accettare gli altri due come vice. «Il primo che avesse detto sì, avrebbe vinto tutto il jackpot» racconta Sergio Piscitello ne Gli inquilini del Quirinale (Rizzoli, 1999). Andreotti nicchiava; Saragat prese cappello e se ne andò; stremato dall’incarico che aveva rimesso qualche giorno prima, La Malfa sarebbe stato anche disponibile. Ma di lì a pochi giorni ebbe il malore che lo avrebbe portato alla tomba. Furono quelle, è vero, consultazioni molto particolari. Non esiste però al riguardo una norma codificata: da Einaudi in poi ogni presidente si regola come crede. Le modalità variano, i ritmi pure, e gli imprevisti sono anche abbastanza frequenti. Una volta che era particolarmente irrequieto, Pannella fu con un certo garbo accompagnato fuori dal Palazzo; un’altra volta Occhetto, che si sentiva offeso da Cossiga, rifiutò di farsi consultare. Ma siccome la vita istituzionale ha una sua bislacca circolarità è poi anche toccato a Cossiga, in qualità di presidente emerito, di compiere a sua volta il gran rifiuto, accampando una diplomatica laringite. Accadde nell’ormai lontano 1993, crisi del primo governo Amato, quando l’allora presidente della Repubblica Scalfaro si ritrovò nella scabrosa condizione di dover ricevere leader e vice-leader che erano per una buona metà inquisiti e dimissionari. La soluzione fu quindi di evitare di riceverli, e questo dispiacque a Cossiga, che si ammalò. Un’altra volta ancora era estate, e nel salone dove i giornalisti rimangono in attesa appollaiati su una specie di tribunetta davanti a una pesante porta di noce, molto teatrale, svenne un corazziere in alta uniforme: e sono cose che capitano, ma alcune restano indimenticabili. L’uscita dei politici da quella porta, il loro lento disporsi dietro il podietto sotto i lampi dei flash, le facce di circostanza degli uomini del Quirinale, non di rado sospettosi, la maestosità degli arazzi con putti che si baciano, ecco, tutto contribuisce a rendere le consultazioni alla Vetrata un ragguardevole spettacolo politico che l’estetica televisiva non è riuscita finora a spegnere, anzi per certi versi l’ha perfezionata. L’effetto drammatico sta nella tensione fra quel che si vede e quel che s’immagina che accada o sia accaduto al di là del sipario, cioè dietro la porta, nelle segrete stanze, autentico Sancta Sanctorum del Quirinale. E qui già le informazioni sono più rare, l’espressione «retroscena» rivendica una sua perduta dignità, e si procede necessariamente per frammenti, anche insulsi, come pure bizzarri e talvolta inquietanti. E allora: Cossiga offriva a tutti gli ospiti dei cioccolatini; mentre Scalfaro, che una volta Sgarbi ha descritto «contorto sulla sua sedia come un ramarro», li faceva accomodare su un divano dalla spalliera dorata e l’imbottitura azzurro pallido. Lui in poltrona: ma al suo fianco, racconta Massimo Franco ne Il re della Repubblica (Baldini & Castoldi, 1997), su un tavolino di marmo, troneggiava un microfono scuro, dall’aspetto antiquato. plausibile che quello strumento «a futura memoria» condizionasse il dialogo. A lungo e con animazione, a partire dalla crisi del primo governo Berlusconi, si è discusso su quel che avevano o non avevano convenuto Berlusconi e Scalfaro a proposito delle elezioni. Se si fosse parlato di date, se Gianni Letta, pure presente nello studio presidenziale, avesse o meno consultato un calendario. Tutto comunque avrà registrato, quel microfono, a uso dei futuri storici, e così sia. Ma quel che è certo è che oggi come allora la cerimonia delle consultazioni sembra creata apposta per tagliare le ali agli slanci del berlusconismo. Il Cavaliere, tanto per cominciare, è ospite. Uno dei tanti. E dopo essersi fatto annunciare, pilotata o meno che sia la crisi, non ne controlla in prima persona né i tempi, né gli sbocchi. Il dominus, come dice Fini, è il Capo dello Stato. La cornice è una reggia che non teme confronti con Arcore, figurarsi con Palazzo Grazioli. La liturgia non solo preesiste, ma ha anche una sua funzione di scarico delle tensioni. E se stavolta sono previste 28 delegazioni, allora, un po’ come i sigari per Giolitti, dieci minuti di udienza e di semi-notorietà meta-televisiva non si negano a nessuno. Solo il più incauto ottimismo, dopo la vittoria del 2001, poteva dichiarare il superamento assoluto e definitivo delle consultazioni. La forma monstre che hanno preso queste di ieri e oggi, la processione di massa, la scombiccherata sequela di cespugli e cespuglietti finiscono per significare molto più di quello che appare, rinviando al classico menù che accompagna il caos indifferenziato tra i partiti e nei partiti: minestrone, pasticcio, spezzatino, fritto misto e macedonia. Verrebbe addirittura da chiedersi il perché e il per come di questo ritorno. Ma come per tutti i riti, forse poi si finisce per scoprire che c’è dentro un pezzetto di futuro. Filippo Ceccarelli