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 2006  gennaio 15 Domenica calendario

Il nero che stese Hitler. Il Sole 24 Ore 15 gennaio 2006. A volte, un gioco è molto più di un gioco

Il nero che stese Hitler. Il Sole 24 Ore 15 gennaio 2006. A volte, un gioco è molto più di un gioco. Nel 1969, ad esempio, quando la Cecoslovacchia ebbe la meglio sull’Unione Sovietica nel campionato del mondo di hockey su ghiaccio, a Stoccolma, a meno di un anno di distanza dalla fine delle Primavera di Praga. Sfiniti, i giocatori cechi scoppiarono a piangere, mentre la folla inneggiava a Dubcek. Nella Germania degli anni Venti, l’umiliazione della sconfitta trovava sollievo nei trionfi di Max Schmeling, un pugile di bella presenza, dai capelli corvini. Nel 1927 Schmeling sconfisse il belga Fernand Delage nel campionato europeo dei mediomassimi, e l’anno dopo mise ko l’italiano Michele Bonaglia. In quel momento di estasi nazionale, ottomila tifosi si alzarono in piedi allo stadio per cantare "Deutschland über Alles". Allora ben più di oggi, e in Germania, forse più che altrove, la boxe era un parametro di virilità individuale, ma anche collettiva. Il culto di Schmeling moderno eroe tedesco non investiva solo gli ambienti proletari dei fanatici della boxe. George Grosz gli dedicò un ritratto a olio, e un paio di guantoni erano appesi a una parete del suo studio. Bertolt Brecht amava lo sport, e frequentava pugili e manager. più difficile immaginare Thomas Mann che se ne esce dal suo studio per assistere a un incontro di pugilato, e forse l’idea gli era anche venuta, mentre suo fratello Heinrich era un amico personale di Schmeling. Sempre a caccia di adulatori, Schmeling fu anche un campione di sopravvivenza, cambiando astutamente casacca col mutare dei tempi. Negli anni Venti e Trenta frequentava un locale chiamato Roxy-Bar, dove se la spassavano artisti e sportivi. Nel libro degli ospiti vergò una frase: "Artisti, concedetemi il vostro favore - anche la boxe è un’arte!". Atteggiamenti del genere gli valsero la simpatia del pubblico dei caffè della Repubblica di Weimar, mentre il suo perfezionismo fisico impersonava un ideale molto diffuso tra i tedeschi dell’epoca, tutto quel pavoneggiarsi nudi sui laghi prussiani o le spiagge baltiche. La boxe non era uno sport tedesco, mentre si apprezzavano la ginnastica e le parate militari. La boxe è uno sport individualistico per eccellenza, che affascinava sia Brecht, a dispetto delle sue idee politiche, sia Grosz, che amava dell’America tutto ciò che fosse veloce, jazzy e urbano. Il suo entusiasmo per la boxe ben si intonava col suo Amerikanismus. Anche quando Schmeling venne adottato dal nuovo regime e divenne (del tutto consenziente) un nazista da manifesto propagandistico, non perse mai la simpatia dei vecchi bohemien di Weimar. Una delle tante informazioni affascinanti che David Margolick (Beyond Glory: Joe Louis vs. Max Schmeling, and a World on the Brink, New York, Knopf, 2005) ci offre nel suo racconto dei leggendari combattimenti tra Schmeling e Joe Louis, è la lista di coloro che si congratularono col pugile tedesco dopo la sua prima vittoria contro il Bombardiere Nero, nel 1936. Sebbene la maggior parte della popolazione di colore, degli ebrei e dell’opinione pubblica liberale (incluso qualche non-liberale) fosse in lutto per la sconfitta di Louis; e nonostante la stampa nazista esaltasse il grande trionfo ariano sull’Untermensch nero, Schmeling ricevette telegrammi di congratulazioni dal Führer, come era da attendersi, ma anche da George Grosz, Marlene Dietrich ed Ernst Lubitsch, tutti già residenti negli Stati Uniti. Schmeling era dopo tutto un uomo molto astuto. Mentre a Berlino se la intendeva con l’élite nazista (lui e la moglie Ondra erano spesso ospiti dei Goebbels), si teneva ben stretto il suo manager ebreo newyorkese, l’infaticabile Joe "Yussel" Jacobs. Gli amici nazisti facevano finta di non sapere, fin tanto che Schmeling vinceva e portava in patria valigie di valuta pregiata. In effetti, come Margolick sottolinea, allora sarebbe stato difficile entrare nel mondo della boxe professionale americana senza aver a che fare con la comunità ebraica: "In America, gli ebrei dominavano la boxe, non solo come pugili e tifosi, ma anche per tutto quello che c’era di mezzo: procuratori, allenatori, manager, arbitri, produttori di attrezzature, fornitori, giornalisti. Nessun gruppo etnico nella storia americana era mai riuscito a dominare a tal punto uno sport importante". Sia quel che sia, il fatto che Schmeling e Louis siano stati protagonisti di due leggendari combattimenti allo Yankee Stadium di New York era opera degli sforzi di due procuratori ebrei, Joe Jacobs e Mike Jacobs, due tipi molto diversi, e per nulla parenti, a dispetto del cognome. Joe "Yussel" parlava sopra le righe, amava vestirsi vistosamente, correr dietro alle donne, e rimase fedele al suo uomo sebbene Schmeling non lo trattasse sempre bene. Mike Jacobs era un austero uomo d’affari che raramente assisteva agli incontri che organizzava. Max Schmeling contro Joe Louis aveva tutto per diventare molto più di un incontro di boxe. Venne promosso come un combattimento tra gli Stati Uniti, la più grande democrazia del mondo, e la Germania nazista. Era soprattutto visto come uno scontro razziale, descritto dalla stampa tedesca nei termini di una tenzone tra la superiore volontà ariana e la negra forza bruta. E non solo nei giornali tedeschi. Margolick non risparmia citazioni e aneddoti tratti dalla stampa americana, non meno schierata sul fronte razziale. Persino articoli in favore di Louis, ad esempio uno pubblicato nel 1935 sullo "Herald Tribune", non mancavano di annotare che vi era "qualcosa della giungla nel modo di combattere di Louis". Un giornalista del tedesco "Box-Sport" riferiva che per molti bianchi americani Schmeling era assurto al ruolo di "cavaliere dalla scintillante armatura", "baluardo contro il pericolo nero". Quando Louis si avvicinava al ring, in quelle due febbrili sere nel Bronx, nel 1936 e nel 1938, avvolto nella sua vestaglia di seta rossa e blu per affrontare il pugile favorito di Hitler, si portava addosso le speranze di milioni di uomini e donne, ma anche il disprezzo dei fanatici di Berlino e di molti Stati dell’Unione. Louis si era in realtà costruita un’immagine pubblica all’opposto dello stereotipo razziale. Sempre gentile, sottotono, amichevole e dignitoso, non si sognava di uscire con donne bianche e si mostrava cavalleresco nella vittoria. Fuori dal ring, osserva Margolick, sembrava addirittura un uomo piuttosto passivo, quasi spento. La verità è che non sappiamo cosa accadesse nella mente di Joe: forse era solo un uomo che amava nascondere i propri sentimenti. Ciò nonostante, la sua riservatezza veniva presentata come segno di stupidità, era un uomo "non costruito per pensare", chiosava l’"Atlanta Journal". E non erano solo i giornali del Sud razzista a pensarla così. Margolick cita un reporter di Boston che paragonava le cene al campo di allenamento di Joe Louis all’"ora del pasto allo zoo". Ed erano reporter che tifavano per il Bombardiere Nero. La vittoria di Louis su Max Baer nel 1935, e la conquista del titolo di campione dei pesi massimi, gli avevano forse dato alla testa. Prese l’incontro del 1936 sottogamba, preferendo il gioco del golf agli allenamenti. Schmeling, più anziano, si preparò invece con cura, studiando la tecnica di Louis, fino a identificare un suo punto debole: ogni volta che partiva con un destro, abbassava il sinistro, aprendo così un varco all’avversario. Se solo gli fosse riuscito di approfittare di questa debolezza, il pugile più anziano aveva una chance di vittoria. Come puntualmente accadde, con un ko alla dodicesima ripresa. Ciò che ferì Louis sopra ogni altra cosa, non furono gli insulti razziali (di cui il suo avversario mai si macchiò), ma l’accusa rivoltagli da Schmeling di aver usato colpi bassi. Era abituato a essere chiamato un brutalone primitivo, ma non sopportava che fosse messo in dubbio il suo onore di sportivo. Il secondo combattimento non lo trovò impreparato. Mise a punto la sua tecnica e visionò i filmati dell’incontro montati dalla propaganda nazista, constatando con rabbia che un colpo basso di Schmeling, alla fine della quinta ripresa, era stato tagliato. E la supremazia ariana gli venne finalmente a noia. Al combattimento del 1938, l’intellighenzia nera, capitanata da Duke Ellington, circondava il ring, e non mancava neppure J. Edgar Hoover, il potente capo dell’Fbi. A New York, in tutta l’America, sin dentro il ghetto di Varsavia, neri ed ebrei pregavano per la vittoria del Bombardiere Nero. Louis aveva predetto una vittoria al primo round. Il combattimento durò solo due minuti. Nelle parole di Ernest Hemingway, Louis partì con un diretto, un gancio, diretto e gancio, come se Schmeling fosse un sacco da allenamento. Il pugile tedesco cadde in ginocchio, incapace di rialzarsi, e l’arbitro dichiarò Louis vincitore. Uno dei molti miti di cui Margolick dimostra l’infondatezza è quello dell’amicizia tra i due uomini. Quando si incontrarono nuovamente, dopo la guerra, i rapporti furono cordiali, e sembra che Schmeling abbia pagato alcune cure a Louis, quando questi cadde in miseria. Non è chiaro se ciò sia vero, mentre è certo che il tedesco aveva tutto l’interesse a far credere che Louis fosse suo grande amico, nel tentativo di far dimenticare il proprio passato nazista. Al pari di molti altri sportivi e artisti neri del tempo, Louis non aveva praticamente più nulla quando morì per le conseguenze di un attacco cardiaco, nel 1981. Schmeling si trasformò con facilità in cittadino modello della Germania occidentale: mai stato nazista, come la maggior parte dei suoi concittadini. Fece molto parlare di sé (dopo la guerra) per un atto di coraggio, l’aver nascosto due adolescenti ebrei, figli di un amico, durante la Notte dei Cristalli, e averli aiutati a rifugiarsi negli Stati Uniti. Alla sua morte a gennaio dell’anno scorso, all’età di novantanove anni, Schmeling era un uomo molto ricco. Era proprietario dei diritti di vendita della Coca-Cola per tutta la Germania. Ian Buruma