Alberto Arbasino L’espresso, 14 aprile 2005, 14 aprile 2005
L’espresso, 14 aprile 2005 Ero stato invitato da un illustre amico - Vittorio Cordero di Montezemolo, ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede - alla proclamazione del nuovo papa all’aperto, davanti a San Pietro
L’espresso, 14 aprile 2005 Ero stato invitato da un illustre amico - Vittorio Cordero di Montezemolo, ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede - alla proclamazione del nuovo papa all’aperto, davanti a San Pietro. Poltrone e tribune erano piene di alte cariche e supreme decorazioni: diplomatici, aristocratici, grandi ufficiali e dignitari. L’attesa era intensissima, dopo la breve e brutta vicenda del papa precedente. E si riandava ai predecessori: Pio XII pontefice ieratico e praticamente bizantino, per via della sedia gestatoria, dei flabelli piumati retaggio degli scacciamosche egizi, dei gran marescialli con benda nera e costumi pittoreschi, soprattutto nei cinegiornali accanto a Ciare Booth Luce o a Evita Perón. E poi le polemiche sui celebri «silenzi», nel retrobottega di Feltrinelli al Babuino, con Gianmaria Volonté protagonista. E voci di interventi polizieschi alla serata. E l’intrepida Graziella di Beaumont, nata PecciBlunt: «Vengo con Henri, e si vedrà sul passaporto che sono nipote di Leone XIII, della Rerum Novarum». Poi, le rievocazioni di Giovanni XXIII, pontefice dal sorriso benigno e anche patriarca rigoroso nel moralizzare Venezia nel dopoguerra, con effetti castigati sulla mondanità internazionale e anche sul mercato immobiliare. E i complessi freudiani e junghiani che letteralmente si leggevano sul volto di Paolo VI, talmente tormentato da indurre i fedeli a invocare: «Santità, si rilassi». E l’effimero Giovanni Paolo I, fuggevole come un folletto e inquietante come un fantasma nel castello... Quando fu pronunciato il cognome dell’Eletto, praticamente nessuno lo capì. Tutto un «cosa ha detto? cosa avete sentito?», come ai concerti di Jannacci alla Cometa, dove anche i più poliglotti non capivano il milanese. E infatti «Wojtyla» non suonava familiare, né alla gente né ai media. «Sarà un africano?», si chiese più d’uno, citando remote profezie di santi e di maghi, fra centinaia di binocoli puntati, come agli ippodromi, vero «frisson» colse il prestigioso uditorio quando l’Eletto, con piglio risoluto, avanzò sensazionalmente al proscenio come per procedere sul pubblico. E lì il termine di riferimento inevitabile era il film Senso di Visconti, quando il tenore dei Trovatore, si spinge al proscenio della Fenice per il «Di quella pira». Nonché le già mitiche discese dei Living Theater in mezzo agli spettatori, memorabilmente abbattendo le tradizionali barriere invisibili fra il palcoscenico e la platea. «Scenderà? Non scenderà? E poi cosa farà?». Grande drammaturgia. «Epica», per i più brechtiani. Invece il Santo Padre si bloccò di colpo, come i più applauditi Radames a Caracalla, col cocchio frontale a poca distanza dalle prime file. E poi, voltandosi imponente dopo la frenata, ritornò fra i porporati in suspense. «Grande senso del teatro», commentavano i raffinati, beati. E non si sapeva ancora della formazione giovanile scenica. Né si calcolava l’analoga educazione attoriale che tanto giovò a Ronald Reagan. I più anziani ricordavano magari Ermete Zacconi, talmente professionale che benché ottantenne si truccava da vecchio per interpretare la Morte di Socrate. E analogalmente Emma Gramatica vecchissima diede una lezione di verismo a Romolo Valli e Giorgio De Lullo che volevano metterle sotto un materassino, quando cascava a terra alla fine dei Carteggio Aspern di Henry James. «Noi della vecchia scuola abbiamo imparato fin da bambini a cadere in ogni posizione senza sentire dolore!». (Ma intanto, con Jerzy Grotowski e Tadeusz Kantor, la Scuola Drammaturgica di Cracovia ci mostrava magnificamente i poteri dell’espressività corporea nel comunicare emozioni e sentimenti. Si era stati cresciuti nel cult dello Show Business, effettivamente). Alberto Arbasino