Alberto Melloni Corriere della Sera, 02/04/2005, 2 aprile 2005
Successi e fallimenti di Wojtyla in cammino sulle immense diagonali della Chiesa, Corriere della Sera, sabato 2 aprile 2005 Una storia del papato di Karol Wojtyla non c’è, e non ci sarà per anni
Successi e fallimenti di Wojtyla in cammino sulle immense diagonali della Chiesa, Corriere della Sera, sabato 2 aprile 2005 Una storia del papato di Karol Wojtyla non c’è, e non ci sarà per anni. Devono sedimentarsi le emozioni, aprirsi gli archivi, tramontare un mondo, cadere gli stereotipi. Chi ha criticato il ”restauratore” dovrà rileggere mille volte il mea culpa del 2000; gli adulatori del ”vincitore del comunismo” potranno riflettere sull’indifferenza mai scalfita della Cina; chi s’è esaltato per la devozione mariana del Papa polacco non capirà il suo no a Medjugorie; chi ha festeggiato l’intesa sulla giustificazione con la Chiesa luterana dovrà chiedersi perché è mancato il gesto dell’intercomunione; chi è persuaso del suo decisionismo morale potrà chiedersi perché non tolse la porpora al chiacchierato cardinal Groer, perché tardò a rimuovere il card. Law dal putiferio di Boston, o per quale cedevolezza si lasciò privare d’un canonista come il cardinal Pompedda. Wojtyla se ne va rincorso dal rimpianto delle telecamere, dalle stucchevolezza della papolatria tipica di questi momenti, dal lutto composto dei cristiani comuni, nemmeno più sconcertati di tanto dal modo in cui l’inner circle ha gestito le fasi finali della malattia. In queste condizioni è impossibile tentare un ”bilancio”: al massimo si può cercare di raccontare con un occhio storico ciò che Papa Wojtyla nel 1978 - per sua dichiarazione pubblica, non per confidenze e sussurri - s’era ripromesso di fare o di non fare, e ciò che per converso è accaduto o meno. Ne escono quattro spicchi. Ciò che Giovanni Paolo II non voleva fare e non ha fatto. Giovanni Paolo II non voleva metter mano alle istituzioni di governo della Chiesa cattolica. E non l’ha fatto. Figlio del Vaticano II, credeva alla collegialità episcopale, ma non ha mai voluto tradurla in istituzioni. Il sinodo dei vescovi, nonostante le istanze di uomini come il cardinal Martini o il cardinal Daneels, è rimasto l’umiliante organo consultivo che era: non può darsi un’agenda e non può decidere nulla. Ciò non è accaduto a vantaggio della curia romana: l’esecutivo del Papa, è rimasto a casa, mentre il Papa girava il mondo, senza che nessuno ne regolasse i conflitti. Il cardinal Ratzinger ha preso posizione contro l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, senza che il cardinal Sodano, titolare della diplomazia vaticana, dicesse altro. Proprio nei mesi in cui il cardinal Re prendeva in mano la congregazione dei vescovi, il cardinal Pompedda ha criticato il metodo di scelta usati per i capi delle diocesi ed è stato pensionato; il cardinal Biffi ha fatto un libro contro il mea culpa letto da Ratzinger, senza problemi. Il cardinal Kasper s’è visto minare molti sforzi da atti del Sant’Ufficio (prima e dopo la nomina del cardinal Bertone ad arcivescovo di Genova) a loro modo mirati, e non aveva alcuna possibilità di far sentire con chi stavano i vescovi. Anziché creare istituzioni di compensazione e di comunione, Giovanni Paolo II non ha nemmeno voluto sfiorare questi temi, che stritolarono Paolo VI: nemmeno quando - seguendo l’appello lanciato ad Oxford da monsignor Quinn, che però non fece mai cardinale - mise in agenda la riforma del servizio petrino, che ha al suo cuore la riforma del rapporto fra collegio dei vescovi, primato del Papa ed organi di curia. Altri temi sono stati parcheggiati da Wojtyla nella zona grigia del non fare: l’intercomunione alla mensa eucaristica fra cristiani di diverse chiese, la formazione culturale dei chierici, quello dell’ammissione di uomini sposati al presbiterato, ad esempio. Temi che, appunto, richiedevano l’adozione di metodi di governo nuovi per essere soppesati. E che, in assenza di quelle istituzioni di congoverno, sono rimasti in attesa di ascolto. Ciò che Papa Wojtyla voleva, ma non ha ottenuto. Ci sono state cose che il Papa volle e non ebbe: una lista che s’è accorciata nel corso del pontificato. Alcuni viaggi, che non sono stati possibili per anni, si sono realizzati: ma è difficile credere che l’agognata visita a Mosca o il mancato contatto col pianeta Cina fossero dietro l’angolo. Al di là dei viaggi che nemmeno lo zelo attento del cardinal Tucci ha potuto ottenere, c’è però un risultato che è mancato al Papa: cioè la ripresa rinvigorita della disciplina in materia morale. A Wojtyla la Chiesa ha dato un rispettoso silenzio, ma non l’entusiasmo nell’abbracciare la dottrina morale. Non è stato per colpa di qualche teologa femminista o per la reattività dei fedeli che tanto angosciò Paolo VI: quel desiderio è andato fallito perché la larghezza della Chiesa (di cui Wojtyla ha misurato le immense diagonali che separano nicchie culturali, spirituali, teologiche) ha reso impossibile riproporre il discorso morale nei termini monocolori, a presidio dei quali era posto il magistero ordinario e l’infallibilità in tutte le sue graduazioni. Giovanni Paolo II vagheggiava fin dai suoi inizi una simmetrica ripresa spirituale vigorosa, riassunta dall’ordine appello a superare le paure e a spalancare le porte al Cristo e impersonata dalla sua insistenza a proporsi come icona televisiva di preghiera, di predicazione di dedizione, di sofferenza vissuta davanti al mondo intero. Ha ottenuto venerazione, ammirazione, adulazione: ma non la primavera spirituale. Anzi ha finito per deprimere il ruolo dei vescovi e la stessa autopercezione del clero, al quale incombe il compito di insegnare la vita spirituale in quegli spazi piccoli e decisivi nei quali si gioca la vita cristiana: il prete che deve spendersi per quattro ragazzi, è rimasto schiacciato dalla logica degli eventi di massa, proposti come ”prove” dell’esistenza della fede, e - come s’è visto nella modesta risposta spirituale delle ore dell’agonia - anziché aprire la Chiesa, stava davanti alla tv o sul web. Ciò che Giovanni Paolo II ha fatto e che voleva fare. L’elenco più noto e festoso è ciò che riguarda quello che Wojtyla voleva e che ha avuto. Voleva celebrare il funerale del ”socialismo reale” di Lenin, Stalin e Breznev, e c’è riuscito, sia egli o meno spettatore, concausa, o causa di quel crollo. Beneficiario dell’Ostpolitik del cardinal Casaroli e del cardinal Silvestrini (senza di loro non sarebbe nemmeno salito sull’aereo per Roma nel 1978), Giovanni Paolo II non s’è mosso come l’agitatore che alla fine riesce nell’intento di rovesciare il governo nemico. Al contrario, egli è stato colui che ”vede” in anticipo un’implosione che non poteva non accadere per ragioni antropologiche (più che teologiche), e che si gode la scena. Altro successo non banale è stata la riapertura del dialogo con la scienza: la gestione del ”caso Galileo” e degli Archivi vaticani ha aperto un rapporto con scienziati che non hanno nessuna intenzione di adeguarsi alle direttive vaticane, ma hanno appreso a riconoscere nell’interrogazione etica di cui il Papa è stato protagonista sui terreni ultimi della pace, dei diritti, dell’ambiente, la voce di un interlocutore significativo, anche se non certo ”obbedito”. Infine Giovanni Paolo II ha ottenuto ciò che voleva dando lustro al modello polacco di cristianità: pur avendo tradito il ”suo” Papa andando in guerra con Bush, la Polonia dell’enfasi mariana e della sindacalizzazione della politica, dell’unità dell’episcopato e della fedeltà del clero, della religiosità popolare e dalla visibilità della mobilitazione, della compostezza e della devozione, questa Polonia è diventata una delle ”lingue” spirituali riconosciute in tutta la Chiesa, anche se non tutta la Chiesa ne pratica la sintesi. Ciò che Giovanni Paolo II ha fatto, pur senza averne l’intenzione. Per quanto questa elencazione sia friabile, c’è una lista di cose che Papa Wojtyla non voleva fare e che invece, senza o contro la sua intenzione, sono accadute. La più vistosa è l’’abolizione” del magistero papale per inflazione. Con Giovanni Paolo II il magistero verbale è giunto al capolinea di un processo avviatosi quando, privato della sovranità temporale, il papato ha potuto sperimentare prima di altre istituzioni la trasformazione del potere in immagine. Questo potere smaterializzato ha incrementato la quantità delle parole e le ha rese effimere. Le cose importanti Giovanni Paolo II le ha fatte coi gesti. Discorsi e encicliche davano soddisfazione ai suoi collaboratori per qualche settimana (è per questo che Fides et ratio, riprende alcune tesi del cardinal Ruini sull’antropologia, che Ut unum sint rispecchia l’aspirazione ecumenica del cardinal Willebrands, o che il discorso per il 60esimo di Auschwitz riflette lo stile del cardinal Lustiger), poi finivano in quel dimenticatoio che sono i volumi dei discorsi. In questo magistero multicolore (a cui s’associa un firmamento di santi e beati in grado di accontentare ogni frammento di Chiesa) ciascuno trovava quel poco che gli si confaceva e lo usava in modo da permettere ai propri preti in età adeguata (il cardinal Scola per Cl, il cardinal Antonelli per i Focolari, il cardinal Cipriani per l’Opus Dei) di essere comunque ”papisti”. Paradossalmente e proprio il Papa che è riuscito ad essere più onnipresente nella cattolicità, ha finito così per essere l’unico elemento condiviso dalle infinite ”tribù” del cattolicesimo - tribù spirituali, movimenti, ma anche etnie e culture nazionali - disposte a riconoscere per convenienza o per buona creanza che nella tribù accanto c’è un ”cristianesimo” autentico. Icona di questa Chiesa difficile da circoscrivere con un solo tratto, Giovanni Paolo II ha impersonato qualcosa di qualificante del Cristianesimo e di tipico del Cattolicesimo romano. In lui e nella Chiesa sussisteva una complexio oppositorum. Dialogo ed identità, innovazione e tradizione, piglio e timidezza, ogni contraddizione non s’è risolta in un processo dialettico, né in un’intermittenza, ma nel coabitare, dentro gli spazi dell’interiorità e del governo, dei termini stessi della contraddizione. Questa, che i denigratori semplificano e gli adulatori esaltano, è stata una caratteristica qualificante di Wojtyla, del nostro tempo e della Chiesa che lo abitava. Per la Chiesa della complexio oppositorum è il momento di un lutto, che dovrà partorire analisi, dalle quali nasceranno nuovi quadranti, nuove scelte. Alberto Melloni