Sandro Viola la Repubblica, 02/04/2005, 2 aprile 2005
L’effetto dirompente del viaggio in Polonia di Giovanni Paolo II
La paura tragicomica della nomenklatura sovietica, la Repubblica, sabato 2 aprile 2005 La mattina del 17 ottobre 1978, a Mosca, del tutto ignaro che poche ore prima un cardinale polacco fosse asceso al soglio di Pietro, stavo aspettando davanti all’hotel National il giornalista sovietico che da anni, ogni volta che approdavo in Urss, mi veniva assegnato dall’agenzia Novosti come interprete e accompagnatore. La giornata era molto fredda, ogni tanto una raffica di nevischio attraversava la piazza del Maneggio, e l’attesa si prolungava. Di solito puntuale, quella mattina l’interprete era infatti in ritardo d’oltre mezz’ora. E quando finalmente arrivò aveva l’aria trafelata, lo sguardo turbato, come se gli fosse accaduto qualcosa di grave. Mi chiese subito se sapevo come si fosse concluso il Conclave romano. E al mio diniego s’affrettò, senza celare l’agitazione, a darmi la notizia: ”Un polacco, hanno eletto un papa polacco... No, non è Wyszynski. un altro, il cardinale di Cracovia...”. Quindi estrasse dalla tasca del cappotto un pezzo di carta, e vi lesse un nome che non avevo mai sentito: Karol Wojtyla. ”Sai chi è?”, mi chiese. Risposi che no: che non avevo la minima idea di chi fosse, e quali posizioni rappresentasse nella Chiesa di Roma. Ma intanto riflettevo, cercavo di pesare la notizia, mi rendevo conto dello sconcerto che essa stava seminando nei palazzi del potere sovietico. Quel giorno avevo in agenda quattro appuntamenti di cui uno, nel pomeriggio, al Comitato centrale. Ma gli appuntamenti, m’avvertì l’interprete con un giro di frasi imbarazzate, erano stati rinviati tutti e quattro a data da stabilirsi. Se però non volevo perdere la giornata di lavoro, proseguì il russo, si sarebbe potuto combinare un colloquio col vice ministro dei Culti. La cosa m’interessava? L’idea d’un incontro al ministero dei Culti, l’organo dello Stato sovietico che amministrava le questioni religiose, l’avevo avuta un paio di volte in altri soggiorni a Mosca. Ma senza alcun successo, perché il ministero aveva ignorato le mie richieste. Mentre quella mattina del 17 ottobre ’78 l’incontro era divenuto improvvisamente possibile. Andai così a vedere il vice ministro dei Culti, di cui ho perso il nome, nel più piccolo e scalcinato dei ministeri moscoviti. E lì, in una scena e attraverso un dialogo che sarebbero piaciuti a Gogol, capii che l’elezione del papa polacco non aveva procurato nella dirigenza sovietica, come avevo lì per lì creduto, uno sconcerto, bensì un vero e proprio sgomento. Il vice ministro m’accolse infatti quasi trepidante, con una cordialità esagerata, convinto che io, in quanto italiano e cattolico- romano, dovessi sapere qualcosa sulla scelta del Conclave, sulle sue possibili motivazioni, su eventuali retroscena. E all’accorgersi che delle faccende di Santa Romana Chiesa ne sapevo anche meno di lui, la sua espressione si faceva sempre più delusa, irritata. Forse pensò che gli nascondessi notizie importanti sulla politica vaticana, forse mi considerò uno sprovveduto. Certo è che l’incontro, da cui era sparito l’iniziale calore, finì freddamente e nei modi più sbrigativi. La sua comicità a parte, la visita al ministero dei Culti non era stata certo inutile. A meno di ventiquattr’ore dalla fumata bianca, avevo colto pienamente che la notizia dell’elezione di Karol Wojtyla s’era abbattuta sull’Urss come un colpo di maglio. Che nella Mosca di quell’ultima, asmatica fase brezneviana, mentre già s’andavano profilando tutti i fattori che avrebbero condotto al disfacimento della ”patria del comunismo” (l’irrimediabilità della crisi economica, la sclerosi del sistema politico, l’enorme divario tecnologico e militare con l’Occidente), l’avvento del tutto inatteso d’un papa polacco giungeva come un cupo presagio di nuovi ostacoli e sventure. Mi chiedevo cosa stesse avvenendo in quelle ore nel palazzone rossastro della Lubianka, ai vertici del Kgb. Il mastodontico apparato spionistico dell’Urss era stato anch’esso preso alla sprovvista come il grigio, insignificante vice ministro dei Culti, o era più informato sugli orientamenti della Chiesa cattolica? In ogni caso, era facile immaginare che l’atmosfera al Kgb, e in specie al dipartimento Polonia, dovesse essere quella mattina febbrile. Toccava agli uomini di Jurij Andropov, infatti, preparare per i gerontocrati del Cremlino le ”schede informative – sull’elezione a pontefice del cardinale di Cracovia: e quelle schede non potevano non contenere una prognosi funesta sulle conseguenze che l’avvenimento avrebbe avuto da allora in poi sulla Polonia in particolare, e quindi sulla stabilità del campo comunista nel suo complesso. Oggi, in sede di bilancio, la domanda cui si vorrebbe rispondere è sin troppo elementare: in che misura, e quanto direttamente, il Papa polacco contribuì al crollo del comunismo? Ma se la si vuole precisa, la risposta dovrà ancora tardare. Testimonianze cruciali, documenti decisivi verranno fuori a poco a poco, e solo tra qualche anno si potrà formulare una valutazione attendibile. Il giudizio storico, cioè, sulla parte che Karol Wojtyla ebbe nello scardinamento dell’impero sovietico. Quel che oggi sappiamo, quel che è certo, è che il nuovo Papa non perse tempo. Non cercò di dissimulare le sue posizioni. Già nelle prime settimane dopo la sua ascesa, infatti, lasciò trasparire che al centro della sua visione c’era la sfida al marxismo. Il rigetto della spartizione dell’Europa decisa a Yalta oltre trent’anni prima. La certezza che lo statu quo uscito dalla Seconda guerra mondiale non dovesse essere considerato definitivo, e anzi potesse essere modificato senza conseguenze catastrofiche. E in questa visione c’era, fondamentale, la sua esperienza di prelato in un paese comunista. Nessuno come Karol Wojtyla (non nelle cancellerie europee, e neppure alla Casa Bianca e alla Cia) sapeva infatti come fossero ormai tarati, barcollanti, i sistemi comunisti. Come avessero perso qualsiasi consenso delle popolazioni, ogni energia, ogni speranza di rinnovamento. E la prova, a chi poteva ancora dubitare delle sue certezze, la dette con il suo primo viaggio in Polonia nel giugno del ’79. Fu lì, col suo trionfale ritorno nel paese natale, che Giovanni Paolo II sferrò la prima spallata contro la dominazione sovietica in Europa. Bastarono poche ore dopo il suo arrivo a Varsavia, e già noi testimoni avevamo percepito gli effetti dirompenti della comparsa d’un papa – polacco per giunta – nel più cattolico tra i paesi dell’impero sovietico. Poche ore, e fu infatti chiaro che per quanto ”storica – e strutturale, per quanto già avanzata e ormai quasi tangibile, la fase decadente del comunismo aveva conosciuto con l’approdo di Karol Wojtyla sulle rive della Vistola un’accelerazione improvvisa e decisiva. Il passaggio, si potrebbe dire, dalla crisi all’agonia. Quelle giornate del giugno 1979 furono infatti come una ventata su un castello di carte. Lo Stato comunista – che già aveva perso da anni ogni legittimità – scomparve letteralmente. Nessuna forza di polizia, nessuna intimidazione, nessun limite posto a priori nel programma della visita, riuscirono a frenare la marea umana che si mosse ad ogni tappa o passaggio del papa, in una manifestazione impressionante di rifiuto dell’ideologia di Stato, di distacco irrimediabile tra governati e governanti, insomma di rottura politica. Milioni di polacchi cadevano in ginocchio alla vista del corteo papale, gridando in coro ”Viva il papa” oppure ”Resta con noi, resta con noi”. E già al secondo giorno, superata ogni paura, i polacchi presero a scandire insieme ai ”Viva il papa”, ”Demo- kra-cja, de-mo-kra-cja”. Da Mosca a Berlino-Est, da Sofia a Budapest, da Bucarest a Praga, lo scossone fu violento. La visita del papa in Polonia aveva infatti dimostrato che ai regimi imposti dall’Urss nell’Europa centro- orientale restava ormai, nei confronti dei propri cittadini, una sola risorsa: la forza. Essi potevano forse, ancora, tentare una repressione violenta, sparare sulla folla. Ma con le loro folle non potevano più dialogare. E poiché era diventato molto difficile, in quella fine dei Settanta, ripetere quanto era avvenuto a Budapest nel ’56 e a Praga nel ’68, gli Stati comunisti apparvero di colpo inermi. L’anno dopo scoppiavano gli scioperi di Danzica, nasceva Solidarnosc. Dal Vaticano, attraverso contatti continui con l’amministrazione di Washington (e a quanto si disse, anche con la Cia) il papa polacco seguiva giornalmente gli eventi e ne sosteneva i protagonisti, il gruppo d’operai e intellettuali che s’erano posti a capo della rivolta polacca. La Polonia iniziò così la sua lenta, accidentata fuoruscita dal comunismo. E nei nove anni successivi sino alla caduta del Muro di Berlino, fu sempre dalla Polonia, e sempre con l’implicito appoggio del capo della Chiesa cattolica, che vennero i colpi d’ariete contro quel che ancora restava in piedi, dopo tanti fallimenti, dell’impero sovietico. Su un punto, tuttavia, Karol Wojtyla si sbagliò. Aveva creduto, e teorizzato, che dalla sofferenza dei popoli dell’Est europeo sottoposti per quasi mezzo secolo alla dominazione comunista, sarebbe affiorata una ”civiltà”. Un mondo diverso da quello occidentale: meno materialista, temprato dal confronto con le avversità, assetato dei valori spirituali e culturali che nella notte del comunismo erano stati impraticabili. Capace d’una moralità, d’una nettezza d’animi, scomparse da tempo nei paesi detti avanzati. Un mondo ancor più religioso di quanto la Polonia non fosse stata nel suo mezzo secolo di cattività. Il ”dopo ’89” fu invece del tutto diverso. Giovanni Paolo II ebbe tutto il tempo di vedere i popoli dell’Europa ex comunista divenire sempre più laici, mentre si gettavano a corpo morto nel fiume del consumismo, del capitalismo più selvaggio, della cosiddetta liberazione sessuale. Vide quindi sorgere, invece che una nuova spiritualità, la più sfrontata e indecente delle modernità. Ed è stata questa, forse, la sorpresa che ha più amareggiato i suoi ultimi anni. Sandro Viola