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 2006  febbraio 06 Lunedì calendario

ROBINSON Nate (Nathaniel Cornelius). Nato a Seattle (Stati Uniti) il 31 maggio 1984. Gioicatore di basket

ROBINSON Nate (Nathaniel Cornelius). Nato a Seattle (Stati Uniti) il 31 maggio 1984. Gioicatore di basket. «[...] è alto 175 centimetri: il che lo terrebbe ben all’interno della media, se non fosse che Nate gioca nel basket Nba, dove sotto i due metri sei uno basso; lui, lì dentro, è un nano. La seconda è che Nate-il-nano è stato [...] scelto per giocare la gara delle schiacciate nell’All Star Game, la festa con cui la Nba ogni anno celebra se stessa: e la gara delle schiacciate, nello slang del basket Usa, è il palcoscenico su cui si vede davvero chi conta di più (perché, inutile far giri di parole, alla fine quasi sempre di questo si tratta, quando due maschi stanno lì a contendere). E Nate-il-nano quelli della Nba non lo hanno chiamato perché è un fenomeno da baraccone, il nano più alto del mondo; no: lo hanno messo in gara perché le sue schiacciate sono esattamente come quelle di Doctor J Erving, o di Michael Jordan: arte. Misuro un metro e settantacinque: quanto mi manca al canestro? Questo avrebbe potuto chiedersi Nate Robinson, e un metro e trenta sarebbe stata la tremenda risposta. Ma come con il treno di Einstein (quando arriverà Zurigo al treno?, era il modo in cui il genio spiegava al profano la teoria della relatività), Nate ha rovesciato i termini della questione: quanto manca al canestro per arrivare a me? Il che non ha cambiato la risposta, che sempre un metro e trenta è; però ha cambiato la prospettiva di Nate: sarà una prestidigitazione con cui incantare la propria anima, ma tant’è: il nano ha abbassato il canestro, e adesso è dall’alto che gli ficca dentro il pallone. Non c’era altro modo che volare, per farlo. E il volo Nate Robinson lo ha preso. Adesso è una guardia dei New York Knicks, ma quanto sangue ha buttato per arrivarci. Essere nella gara delle schiacciate è solo l’inizio, qui al massimo livello, e quando si fa un giro nella pallacanestro dei college e delle università e si dice il nome Robinson la risposta è sempre quella: un fenomeno. Ma era al football che i suoi primi coach lo avevano indirizzato. Al college, e dopo anche all’università. Perché Nate era fatto per lo sport, e questo era sembrato chiaro subito. Sarà che il babbo suo, Jacque, è stato un grandissimo del football universitario (due volte miglior giocatore delle finali) e poi ha avuto una discreta carriera nella Nfl; sarà che vedersi così piccolo non ha depresso il ragazzo ma gli ha gonfiato di voglia di farcela l’anima e il cuore. E dunque subito è stato chiaro che su un campo Nate doveva finire: nano per il basket (gli ridevano dietro), buono per il football: non alto ma quadrato, e veloce. E, soprattutto, morto mai - agonisticamente, chiaro. Pure, mentre segnava touch down a raffica e stabiliva anche il record statale dei 110 ostacoli, in testa aveva solo una cosa: la palla arancione, il basket. Quella palla non la abbandonava mai, ci dormiva, le parlava: e quella volta che l’allenatore di atletica si fece girare le balle e gliela lanciò nel lago Washington il ragazzo non fece una piega: comprò un nuovo pallone, e disse addio all’atletica. ”Ha sempre voluto diventare grande e grosso”, ricorda babbo Jacque. ”Ha sempre voluto seguire le orme del padre”, ricorda mamma Renee, che il primo dei suoi tre figli (Jacque ne ha avuti altri quattro dal secondo matrimonio) ha messo al mondo mentre il marito giocava una delle finali che lo avrebbero reso celebre. Grande, anche se in un altro senso, Nate ha in effetti cominciato a diventarlo presto, aveva 5 anni quando i genitori si sono separati: è da allora che ha assunto un atteggiamento protettivo, da capofamiglia, con tutti i suoi fratelli: tutti alla pari, di primo o secondo letto che fossero. E la pena più profonda mai vissuta è stata la morte di Deron Robinson, nel ’98: aveva 5 mesi, babbo Jacque tornò a casa e lo trovò così, morto, nella culla. Il primo che Jacque chiamò fu Nate:’Aiuto, disse papà al telefono. Piangeva. E io mi sentii morire”. Deron non c’è più, ma Deron è vivo: un pallone da basket con le ali tatuato sulla spalla di Nate, accompagnato dalla scritta R.I.P. (rest in peace, riposa in pace), e l’abitudine di parlarne come se fosse qui, ancora. E certo lo rivede dentro suo figlio Nahmieer, avuto da Sheila, sua compagna di università - esattamente come babbo Jacque e mamma Renee erano i fidanzatini della scuola. Nate la sua storia dice così: ”Non conta la dimensione del cane dentro la lotta, ma la dimensione della lotta dentro il cane”. Appunto. E il bello è che per anni, dopo che qualcuno gliela aveva regalata, quella frase gli era rimbalzata dentro come un pallone senza controllo: ”Una cazzata, pensavo. Fino a che un giorno ho avuto l’illuminazione». La ebbe, e bombardò e bombardò l’allenatore della squadra di basket di Washington, Lorenzo Romar, fino a che questi non gli concesse una chance. Finita la stagione del football, per giocare il quale l’università lo aveva chiamato, Nate finì dentro la squadra di basket. Esordio in casa: i compagni giocavano a basket, lui ancora a football: un disastro. Seconda partita, a Santa Clara: pronti via e lui ancora non ci capiva nulla; poi intercettò un pallone, s’involò verso il canestro avversario e: sbam!, schiacciata. Poi ancora tiri da tre, stoppate (perché il ragazzo è naturalmente anche un grande difensore), rimbalzi: ”Non ci potevo credere: non sapeva nulla di basket, eppure il basket gli usciva da dentro come una canzone”, dice ancora sbalordito coach Romar. E sbalorditi erano tutti quelli del basket che conta, da Larry Bird e LeBron James, quando Nate-il-nano cominciò a mostrarsi. Lo ricordano ancora, in Delaware, ad un torneo amichevole: tribune piene per vedere LeBron James, rimbalzo verso cui sale DeAngelo Brown, 208 centimetri, quando il numero 2 avversario di materializza nell’aria, strappa la palla dalle mani di Brown e gliela schiaccia - senza mai scendere a terra - sulla faccia. Folla impazzita: ”Datela al 2”: dategli la palla, vogliamo godere. Il 2, certo, era Nate-solo-175 cm. ”Il fatto è che da mamma e papà ho avuto un cuore da leone”, dice ora Robinson, ora che ha preso la Nba dopo avervi rinunciato alla prima chiamata (’volevo finire il college”), ora che ha un blog in cui chiama se medesimo Nate The Gr8 (suona Great, grande), ora che ha tirato fuori dal buio il ricordo di nani celebri della Nba, come Spudd Webb o Muggsy Bogues (il nano dei nani, 160 cm, che una volta stoppò Pat Ewing, 213 cm) [...] Post scriptum: che la sua altezza sia 175 centimetri, lo dice Nate e lo dicono i libri di statistica. La verità è che Nate misura, secondo chi lo ha allenato, e anche secondo babbo Jacque, 170 centimetri e basta. Colombe dal cilindro, mazzi di fiori dalle maniche del frac, monete da dietro le orecchie: applausi, è solo il trucco finale. Applausi. E poi il sipario» (’La Stampa” 6/2/2006).