La Repubblica 05/02/2006, pag.46 Natalia Aspesi, 5 febbraio 2006
Truman Capote miserie e gloria di un mito da film. La Repubblica 5 febbraio 2006. Come sembrano lontani i tempi di gloria di Truman Capote (mi hanno avvertito che si pronuncia Capòdi), e non solo perché negli anni Sessanta uno scrittore poteva diventare una star ricca e popolare (nella cafè society ma anche tra i camionisti), quanto oggi un ignoto dell’ Isola dei Famosi, ma perché pareva giusto che qualcuno dedicasse cinque anni a un reportage, a un’ inchiesta, quando adesso cinque ore sembrano già uno spreco
Truman Capote miserie e gloria di un mito da film. La Repubblica 5 febbraio 2006. Come sembrano lontani i tempi di gloria di Truman Capote (mi hanno avvertito che si pronuncia Capòdi), e non solo perché negli anni Sessanta uno scrittore poteva diventare una star ricca e popolare (nella cafè society ma anche tra i camionisti), quanto oggi un ignoto dell’ Isola dei Famosi, ma perché pareva giusto che qualcuno dedicasse cinque anni a un reportage, a un’ inchiesta, quando adesso cinque ore sembrano già uno spreco. Certo il giornalismo attraversava il suo periodo aureo, e negli Stati Uniti Tom Wolfe e Norman Mailer trascinavano i lettori nei labirinti affascinanti del New Journalism, mentre il minuscolo, mondano, inquieto, infelice Capote inventava con A sangue freddo la non-fiction novel, il romanzo verità, il giornalismo costruito con le tecniche del racconto, la cronaca attentamente documentata ma reinventata dalla scrittura letteraria. Capote è morto più di vent’ anni fa, il 25 agosto 1984, un mese prima di compiere sessant’ anni, nella casa di un’ amica a Los Angeles, distrutto dall’ alcol, dalle droghe, dall’ infelicità; al suo biografo Gerard Clarke aveva detto: «Nessuno saprà quanto A sangue freddo mi sia costato. Mi ha scarnificato sino al midollo delle ossa. Mi ha quasi ucciso. Credo che in un certo senso mi abbia ucciso davvero. Prima di cominciarlo ero una persona stabile, almeno relativamente. Dopo mi è accaduto qualcosa. Non posso dimenticare, particolarmente l’ impiccagione, alla fine. Orribile!». Di quei cinque anni di attesa snervante, di quella fatica, di quello strazio, racconta il film Capote, diretto da Bennett Miller, che esce in Italia il 18 febbraio con un titolo più esplicativo, Truman Capote: A sangue freddo. E contemporaneamente l’ editore Frassinelli ripubblica la ricca biografia di Clarke, cui il film si ispira, che è del 1988. è stata una scelta cinematografica temeraria, da parte del regista e dello sceneggiatore Dan Futterman, quella di limitare la storia al tempo della stesura di un libro con i tormenti del caso, che di solito risultano noiosissimi e prevedibili con l’ autore che si prende la testa tra le mani, cammina in su e in giù e strappa dalla macchina da scrivere i fogli, li appallottola e li getta nel cestino (il dramma creativo con computer non è stato ancora artisticamente affrontato). Invece i risultati sono affascinanti, emozionanti e la critica americana ha osannato il film per l’ austera bellezza, la grazia poetica, la profondità etica, e quei colori foschi, quasi in bianco e nero, come era il bel film che nel 1967 Richard Brooks trasse da A sangue freddo. La N. Y. Review of Books ha definito «meravigliosa» l’ interpretazione del protagonista Philip Seymour Hoffman, finora grandissimo caratterista in ruoli sciagurati, come in Happiness, Il grande Lebowsky, Magnolia. Ha vinto il Golden Globe come miglior attore, è candidato all’ Oscar, come lo sono il film, il regista, lo sceneggiatore e l’ attrice non protagonista Katherine Keeler, (l’ amica Nelle). Truman Capote aveva 35 anni quando lesse sul "New York Times" un trafiletto che raccontava di un orribile delitto avvenuto a Holcomb, una cittadina del Kansas: un’ intera famiglia di agiati agricoltori, i Clutter, padre, madre, due figli adolescenti, erano stati brutalmente assassinati in casa loro, forse per rapina. Era il 16 novembre 1959 e lo scrittore, dopo il successo di Colazione da Tiffany, era ormai una celebrità: era «piccolo, gonfio, smorto, con questa voluminosa testa da feto imbarazzante, (tante volte descritta anche con malanimo), e quella vocetta agra che passava dall’ aggressivo al perentorio secondo l’ ambiente sociale», come lo descrive Alberto Arbasino nella raccolta mondadoriana di romanzi e racconti di Capote. Viaggiava ovunque, specie in Italia, era circondato dalle più belle donne della società mondana, che lui chiamava «i miei cigni» e con cui divideva la gioia del pettegolezzo, era ricevuto dai Kennedy alla Casa Bianca, dai Guinness, dagli Agnelli, dai Paley, pranzava da Cecil Beaton, a Londra, con la regina madre o la principessa Margaret «molto noiosa». Viveva con un suo compagno vecchiotto e snobbato dalla Beautiful People, lo scrittore e ballerino Jack Dunphy. Capote partì per il Kansas con un’ amica d’ infanzia, Nelle Harper Lee, che avrebbe vinto il premio Pulitzer con il romanzo e poi film Il buio oltre la siepe, e l’ idea era di scrivere un articolo per il New Yorker sulle reazioni di una piccola comunità colpita da un delitto così atroce. Gli assassini furono identificati e catturati alla fine di dicembre, ed erano due giovani ex carcerati, il biondo Dick Hickock dal viso sfigurato da un incidente d’ auto, e il bruno Perry Smith dalle gambe deformate da una quasi mortale caduta dalla moto. Il processo iniziò il 22 marzo 1960, il 29 si concluse con la condanna a morte, l’ esecuzione fu fissata per il 13 maggio. Il film dedica poche scene a quei cinque mesi di cronaca, cinque mesi che passarono veloci anche nella vita di Capote, che se ne era andato con Jack in Spagna sulla Costa Brava. La sua personale tragedia cominciò subito dopo, con la prima sospensione della sentenza: «Scrivere il libro non è stato difficile, quanto viverci sempre. Tutta la dannata faccenda, un giorno dopo l’ altro. è stato semplicemente straziante, tanto angosciante, debilitante, e triste». Il film si snoda nel crescere di questa ansia, di questa disperazione, ad ogni sospensione della sentenza, anno dopo anno, appunto per cinque anni: sino alle prime ore del 14 aprile del 1965, quando nel penitenziario di Lansing, prima Dick, poi Perry, lui presente, furono impiccati. Finalmente, con quelle quattro gambe penzolanti sopra la botola, A sangue freddo, poteva concludersi ed essere pubblicato, e diventare, come l’ autore prevedeva e pretendeva, il best seller che l’ avrebbe reso ancora più famoso e ricco. Finalmente? Come raccontano sia la biografia che il film, in quei lunghi anni di nevrotica attesa, lo scrittore era andato a visitare i due condannati, rinchiusi in celle separate nel raggio della morte: aveva trovato loro nuovi avvocati, mandato regali, scambiato lettere, soprattutto aveva cercato di farli parlare, con una certa spietata dolcezza, a sangue freddo, per il suo libro ancora incompiuto. In qualche modo gli sembrava di specchiarsi in Perry. Racconta Clarke: «La statura bassa era solo una delle molte analogie sconvolgenti. Entrambi avevano avuto la madre alcolizzata, il padre assente e le famiglie d’ adozione. Perry era stato bersaglio di scherno perché era mezzo indiano e bagnava il letto, Truman era stato preso in giro perché effeminato». «Era come se», dice lo scrittore nel film, «fossimo nati nella stessa casa e io fossi uscito dalla porta principale, e lui da quella di servizio». Eppure quei due assassini dovevano morire, per soddisfare le sue ambizioni letterarie: senza la loro morte, «la morte dolorosa di due uomini che aveva aiutato, consigliato, il libro non poteva uscire». Il dilemma era insolubile ma quando la Corte suprema respinse l’ ultimo appello dei condannati, gelidamente, crudelmente Capote scrisse a un’ amica. «Sono rimasto deluso tante volte che oso a stento sperare. Ma incrocia le dita». Il film dai lunghi silenzi si addentra lentamente nei comportamenti e nei pensieri di Capote per esplorare un profondo quesito morale e letterario: che non riguarda la liceità della pena di morte (lo scrittore era contrario, ma non lo fu in questo caso), ma sino a dove può spingersi il rapporto tra lo scrittore e il suo soggetto. Nel caso di Capote, sino all’ estrema crudeltà che lo accomuna agli assassini, di volere a tutti i costi la loro morte e di negarsi sino all’ ultimo momento, per poi assistere all’ esecuzione. «Non c’ è niente che avrei potuto fare per salvarli», dice alla fine, piangendo, lo scrittore. E Nellie gli risponde: «Forse no, ma la verità è che non hai voluto». Nel 1966, quando il libro fu pubblicato, Capote era ormai invecchiato, ingrassato, alcolizzato, e non riuscì più a completare un libro. Sognava di diventare il Proust americano, ma quella che avrebbe dovuto diventare la sua Recherche, Preghiere esaudite, si arenò a qualche capitolo. Quello intitolato La Cote basque (un celebre ristorante di New York) fu pubblicato nel novembre del 1975 su Esquire, e fu l’ inizio della sua rovinosa caduta. Raccontava con lo stile di una tragedia tutti i pettegolezzi più sordidi del bel mondo che lo aveva accolto e viziato, corna, uxoricidi, alcolismi, ricatti, volgarità, gaffe, brutture: con nomi fittizi ma perfettamente riconoscibili. Fu uno scandalo amaro e subito il piccolo adulato genio eccentrico nell’ aspetto e nei modi divenne un reietto, un «sudicio rospetto». La rivista New York pubblicò in copertina una vignetta che rappresentava un barboncino francese con la facciotta rotonda e gli occhiali di Capote che azzanna gli invitati di una festa con la scritta «Capote morde le mani che l’ hanno nutrito». Tutte le porte delle grandi magioni, anche di quelle italiane dove era sempre stato molto invitato, gli furono sbattute in faccia, pure il suo grande amico Cecil Beaton lo radiò. Ann Woodward, a cui nel racconto, col nome di Ann Hopkins, viene attribuito l’ assassinio del marito, si suicidò con i barbiturici. In Musica per camaleonti, uno dei personaggi, TC, grida. «Sono un alcolizzato. Sono un tossicomane. Sono un omosessuale. Sono un genio». In fondo, quei ricchi che lo abbandonavano, che un tempo gli avevano suscitato soggezione e invidia, lui li aveva sempre disprezzati. Qualcuno tentò di dissuaderlo a pubblicare un testo che avrebbe indignato gente amica e lui rispose: «No, sono troppo stupidi, non capiranno chi sono». Natalia Aspesi