Varie, 4 febbraio 2006
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Tomshinsky Stanley
• New York (Stati Uniti) 29 ottobre 1935, Milano marzo 2004. Artista • «Milano, 11 marzo 2004, cimitero ebraico di Musocco. Ci sono una trentina di persone ai funerali di Stanley Tomshinsky. Sino all’ultimo, prima della cerimonia, le teste si girano verso l’ingresso in attesa dell’arrivo dall’Austria della vedova, la baronessina Cristina von Geispitzaheim. Diluvia. La pioggia aiuta, in momenti simili; diventa una coreografia naturale. D’un tratto arriva un amico: ”Ho telefonato a Vienna. Non viene”, dice. Un gesto e il capo rabbino Laras intona il Kaddish, mentre gli astanti ebrei spargono sul corpo, avvolto in un lenzuolo bianco, manciate di terra di Israele. A 69 anni, se n’era andato l’ultimo dei bohémiennes di Brera, quartiere dove aveva vissuto dal 1966 al 2000, in una casa di via Fiori Chiari, di proprietà delle sorelle Pirovini, titolari dell’omonimo ristorante frequentato, nel dopoguerra, da artisti come Crippa, Dova, Migneco, Kodra; qui spesso i pasti si scambiavano con un quadro. Quel musulmano di Ibrahim Kodra era anche riuscito a farsi cancellare un debito di qualche anno con la promessa (mai mantenuta) che si sarebbe convertito al cattolicesimo. Morta l’ultima delle sorelle Pirovini, i nipoti avevano dato lo sfratto a Tomshinsky: ”Vogliono realizzare, non hanno torto. Sono brava gente, amici. Sono anche venuti alla mia mostra. In qualche maniera farò…”, aveva commentato. Anche se la vita non era stata generosa con lui, Stanley non ha mai proferito una parola sgarbata. Credeva d’essere in un continuo stato di grazia (anche per le canne che fumava), aveva sempre un sorriso dolcissimo e una voce cantileneggiante. [...] era nato a New York nel 1935, in una famiglia ebraica di origine lituana. Padre, farmacista; madre, stilista di moda. Da lei apprende il gusto per il colore. Dopo la laurea in giornalismo, va a Parigi: sei mesi di passione per la fidanzata d’un ufficiale francese di stanza in Algeria. Rientra a New York e si occupa di pubblicità. Ritorna nella capitale francese e per vivere vende auto e dorme nello scantinato d’un teatro. Un giorno, in un bar, uno scultore che sta forgiando una testa con la plastilina gliela porge e lo invita a ultimarla. Nasce così la sua vocazione di scultore. Nel ”63, con in tasca un elenco di collezionisti lombardi datogli da Guy Harloff, viene a Milano portandosi dietro una ventina di sculture. Gli comprano tutto e se ne torna a Parigi (’Ero pazzo di gioia, perché sino a quel momento non avevo mai venduto nulla. E pazzo bisognava proprio esserlo, allora, per fare tante cose” [...] dirà in un’intervista). Sposa Cristina von Geispitzeim e, nel ”66, si trasferisce definitivamente a Milano. Fa sculture filiformi in rame, ma non ha mercato. Fatica a vivere, ma buonumore e speranza non lo lasciano mai. Ha bisogno di qualcosa? Fa dei cambi. Un torso di bronzo per un cavalletto; altri tre per l’impianto di riscaldamento. Nel ”69, un’epatite virale gli impedisce di lavorare il metallo e lo costringe a fare solo il pittore. Paesaggi, figure: ”Sono immerso fra luce e colore”. Colore che applica a strati sovrapposti (’Voglio dare l’idea del movimento. Le immagini devono vibrare. Sono l’insieme di tante cose, come la vita”). Dall’89 decide di creare usando anche il computer. Modem, stampante e carta per un paio di quadri. Cristina apre un ristorante macrobiotico a Brera e scrive un libro di cucina edito da Feltrinelli. Ma va tutto male e lei rientra a Vienna. Non tornerà neppure per il funerale dell’uomo che ha amato» (Sebastiano Grasso, ”Corriere della Sera” 4/2/2006).