Masolino D’Amico La Stampa, 14/03/2005, 14 marzo 2005
Elsa De’ Giorgi vista da chi la conosceva: una farfalla impazzita, La Stampa, lunedì 14 marzo 2005 Di recente il nome di Elsa De’ Giorgi è tornato alla ribalta per una storia di epistole riguardanti la relazione che la sua proprietaria ebbe con Italo Calvino, ma senza che gli intervenuti al dibattito, peraltro non so quanto interessante, sembrassero avere un’idea di chi la De’ Giorgi fosse stata
Elsa De’ Giorgi vista da chi la conosceva: una farfalla impazzita, La Stampa, lunedì 14 marzo 2005 Di recente il nome di Elsa De’ Giorgi è tornato alla ribalta per una storia di epistole riguardanti la relazione che la sua proprietaria ebbe con Italo Calvino, ma senza che gli intervenuti al dibattito, peraltro non so quanto interessante, sembrassero avere un’idea di chi la De’ Giorgi fosse stata. Eppure fino all’altro ieri a Roma, nel peraltro circoscritto ambiente intellettuale, la conoscevano tutti; o, perlomeno, tutti credevano di conoscerla. Molti, anche, non la prendevano sul serio, cosa di cui lei, sempre molto presa di sé e fornita di scarso senso dell’umorismo, non sembrava accorgersi. Del resto era lei a esporsi, con le sue pose e col suo ingenuo presenzialismo. Si affacciava la sera da Rosati in via Veneto, per esempio, dove si riuniva un gruppetto di letterati e giornalisti molto spiritosi e molto esclusivi, e tentava di dire la sua, il che era a rischio. Poteva capitare che il critico Sandro De Feo, che lì in mezzo teneva banco, non per nulla era affettuosamente soprannominato ”Cafone il Censore”, la interrogasse all’improvviso: «Elsa De’ Giorgi, chi ha scritto il Morgante Maggiore?» Elsa fingeva di non sentire per non ammettere che non lo sapeva, del resto oggi non lo sanno nemmeno molti laureandi; ma l’altro la incalzava implacabile fino a metterla in fuga. Elsa De’ Giorgi, Elsina per gli amici, era nata Elsa Giorgi Alberti e aveva solo diciott’anni quando il regista Mario Camerini l’aveva scelta come protagonista della commediola T’amerò sempre. Allora, era il 1933, aveva una bellezza da madonna rinascimentale, bionda, grandi occhi azzurri, nasetto dritto, viso di un ovale classico; forse fu proprio l’aspetto botticelliano a fare innamorare di lei, diversi anni dopo, il conte fiorentino Alessandro Contini Bonacossi, erede di una favolosa collezione di dipinti antichi sulle cui vicende poco limpide non cercheremo ora di far luce. Però (Elsa, dico) aveva braccia e gambe non troppo lunghe, e le caviglie un po’ grosse. Nel tentativo di ridurle - la chirurgia plastica non esisteva ancora - i cinematografari gliele avevano avvolte strettamente per settimane con mollettiere simili a quelle che portavano i fanti nella Grande Guerra, nella vana speranza contemporaneamente di comprimerle e di favorirne l’essudazione. I miei primi ricordi di Elsa risalgono a quando si era messa dietro le spalle sia il matrimonio col conte Sandrino, che si era trasferito in America a quanto pare diffidandola dal seguirlo, e che non tornò più; sia la storia con Calvino, che dopo averla celebrata dedicandole le Fiabe italiane sotto l’anagramma di Raggio di Sole era tornato in sé e si era reso irreperibile. Ma dei miei nonni Cecchi era amica da molto più tempo, e le preziose agendine della nonna, tuttora in gran parte inedite, sono piene di annotazioni sulle peripezie della sua separazione e, dopo, sulle sue apparizioni turbinose. In merito alla prima vi si racconta tra l’altro che Elsa finì per ottenere un buon appannaggio anche grazie all’opera di un sommo avvocato di allora, prima che questi la scacciasse come cliente dopo che la cagnolina da cui Elsa non si separava mai lo aveva sanguinosamente addentato a un polpaccio. A partire da quest’epoca, fine anni 50, Elsa visse sola a Roma, irriducibilmente e persino eroicamente determinata a affermarsi, in un appartamento dove dava ogni tanto cene discretamente scombinate. Qui a forza di insistenze riusciva a attirare persone interessanti dell’ambiente letterario e anche politico; un ospite quasi fisso, che ricordo con timore reverenziale, fu Pietro Nenni, ma c’erano anche giovani di belle speranze. Sempre la nonna, che registra parecchie di tali serate, ne racconta una dove il non ancora affermato Elémire Zolla chiede un libro in prestito alla padrona di casa. Fedele alla sua posa di fine intellettuale, Elsa risponde che non presta libri - e poi, quando alla fine della serata l’invitato si congeda, lo offende mortalmente sottoponendolo a una accurata perquisizione. Prima di diventare un personaggio un tantino ridicolo, anche se mai banale, Elsa aveva avuto un passato artistico non trascurabile. Dai film dei telefoni bianchi dove faceva l’ingenua e da altri successivi in costume era passata al teatro, dove sempre giovanissima era stata Desdemona con Renzo Ricci, la figliastra dei Sei personaggi per Guido Salvini, nonché, famosamente, Elena di Troia nel leggendario Troilo e Cressida di Luchino Visconti a Boboli (1949). In seguito le sue apparizioni si fecero sporadiche, ma comportarono una parte importante con Strehler nei Giacobini di Zardi (1957), e da ultimo un inquietante cammeo in Salò (1977) di Pasolini, già assiduo alle sue cene. Nel frattempo si era dedicata alla scrittura - un saggio su Shakespeare, un romanzo a chiave con perfidi ritratti di personaggi illustri ma anche osservazioni brillanti (I coetanei, 1955); e dopo ancora, a regie di spettacoli e film audacemente sperimentali, sebbene poco visti. Nella cerchia che frequentava si faceva notare, oltre che per la logorrea irresistibile a cui si abbandonava volentieri, per certe eccentricità che affettava con aria imperturbabile. Si vestiva in modo appariscente e rétro (la nonna annota che reduce da un breve viaggio si lamenta di avere subito il furto di due preziose pellicce. «Due? Ma quante te ne eri portate?» «Sei!»). Mangiava esclusivamente carne, donde immagino il suo incarnato acceso, e beveva esclusivamente champagne. Nelle trattorie famigliari care agli scrittori non c’erano difficoltà per procurarsi la prima, ma lo champagne latitava, e per non restare a secco Elsina se ne portava sempre dietro una bottiglia dalla quale attingeva senza offrirlo a nessuno. Anna Magnani le comprò a Parigi un portabottiglia-frigidaire di Louis Vuitton, marchio a quei tempi sconosciuto alle masse, e da allora Elsa girò con quello, che appendeva allo schienale della sedia. La Magnani aveva pochi amici perché diffidente com’era prima o poi finiva per litigare con tutti, ma facevano eccezione certi cani sciolti nei cui confronti le scattava una sorta di istinto di protezione; e Elsa, benché tutto sommato se la cavasse benissimo per conto suo, era tra questi. Così veniva sempre convocata da Anna alla vigilia di Natale: noi d’Amico c’eravamo perché avevamo la sera libera, in casa festeggiavamo la Befana, e l’albero dei nonni (d’Amico) era di pomeriggio. Da Anna si mangiava e dopo si facevano dei giochi, e arrivava sempre un momento in cui Elsa, accesa dallo champagne ma molto seria, si offriva di esibirsi in un assolo di danza sul Boléro di Ravel. Invano la padrona di casa tentava di impedirglielo, temendo eccessi da parte di noialtri pubblico: puntualmente, Elsina spariva e riappariva con uno strano costume che si era portata, una specie di tutù lucido color turchese sulle gambotte nude. Metteva su un 45 giri, anche quello venuto da casa, e si contorceva, concentratissima, in una danza moderatamente sensuale. Noi spettatori - altri ”habitué” erano Antonello Trombadori, Mario e Franco Monicelli, Alberto Sordi - facevamo cerchio accosciati come i ragazzi-bene davanti al celebre spogliarello di Aiché Nanà al Rugantino, ignorando i cipigli di Anna. Quello di noi che si era offerto volontario per manovrare il mangiadischi continuava a fare ripartire la monotona melodia fino al momento in cui Anna, che teneva al decoro, non ne poteva più e metteva fermamente fine al rito. Altre occasioni in cui si vedeva Elsa erano le domeniche pomeriggio dei miei nonni Cecchi, che in quel giorno aprivano la porta a chiunque volesse salire a fare due chiacchiere; si formava un cenacolo abbastanza eterogeneo. Una volta mia zia andò a rispondere al telefono che era in ingresso, appeso al muro. «Chi era?» le domandò a alta voce mio nonno mentre lei rientrava in salotto. «Era Cardarelli», rispose la zia nello stesso tono, «voleva sapere chi c’è». «E allora?». «Gliel’ho detto, e ha detto che non sale». Elsa saliva, invece, senza tante cerimonie, e portava una nota pittoresca. In una occasione, l’8 maggio 1960, rimase a cena, una cenetta improvvisata, e riuscì a stimolare mio nonno Emilio Cecchi, che era sempre a disagio nella conversazione mondana ma si rianimava se l’argomento era più alto. Annotandosi l’episodio, mia nonna traccia anche il miglior ritratto sintetico di Elsa, almeno della Elsa che ricordo io. Le lascio quindi la parola. « stata una serata piacevole, perché Em. era caloroso e voglioso di discussioni letterarie, e eccitato dagli argomenti proposti da Elsa, altrettanto vogliosa di affermare spunti e giudizi del ”maestro” per usarli, magari nelle sue conferenze pubbliche e private. Il colloquio si è mosso, vivo e serrato, su argomenti letterari, soprattutto quelli concernenti il teatro di Ibsen anche in rapporto al teatro greco del quale Ibsen è l’unico moderno, secondo Em., che abbia colto la lineare struttura. Shakespeare è un’altra cosa. Elsa, la quale è, malgrado tutti i suoi insopportabili difetti, colta e appassionata, parte in quarta e dice che ”lei” rialzerà finalmente l’interesse per Ibsen, inconcepibilmente abbandonato, ed è vero, nel teatro moderno; e lei stessa riporterà sulle scene Hedda Gabler. A sentirla dir questo, e soltanto guardarla con tutte le chincaglierie che porta indosso, il goffo vestiario di pessimo gusto, la testa giallo-rosa, come quella di una bambola, vien fatto di constatare una volta di più che esiste un fondamentale squilibrio nelle sue facoltà intellettive e morali. una farfalla impazzita che si sbatte disperatamente sul cofano di una lampada accesa e non raggiunge la luce e logora le ali». Masolino D’Amico