Guia Soncini io donna, 12/03/2005, 12 marzo 2005
Le infinite risurrezioni di Robert Downey jr, feroce dissipatore di vite, io donna, 12 marzo 2005 il 1991, e il film biografico su Charlie Chaplin viene interpretato da un attore ventiseienne considerato «il migliore della sua generazione», che è la definizione più sicura per cacciarsi in brutti guai («migliore della sua generazione» era Kurt Cobain per citarne uno a caso)
Le infinite risurrezioni di Robert Downey jr, feroce dissipatore di vite, io donna, 12 marzo 2005 il 1991, e il film biografico su Charlie Chaplin viene interpretato da un attore ventiseienne considerato «il migliore della sua generazione», che è la definizione più sicura per cacciarsi in brutti guai («migliore della sua generazione» era Kurt Cobain per citarne uno a caso). Quest’attore di grandi promesse sa anche cantare, quindi sui titoli di coda del film canta una canzone scritta da Chaplin stesso, Smile, in cui si ripete la prima regola dello spettacolo: «Sorridi, anche quando ti si sta spezzando il cuore». Dissolvenza, qualche anno dopo. L’attore di grandi promesse entra ed esce dai guai sempre più spesso. Negli intervalli, si chiude in una di quelle belle cliniche di disintossicazione all’americana, quelle dell’importanza dei sentimenti, e del cambiamento, e della crescita spirituale - cose così. Dissolvenza, tempo presente. Intervistato da Vh1 quell’attore - che si chiama Robert Downey jr e che nel frattempo ha dato forma alle sue doti canore pubblicando un album, The Futurist - parla di Smile: «C’è stato un momento, nel corso dei miei periodi di disintossicazione nazista, in cui avrei definito ”molto inappropriate” canzoni come questa e come quella di Billy Joel, Just the way you are. Inappropriato incitare a sorridere quando ti si spezza il cuore, a non cambiare mai. Ma il fatto è che sono semplicemente delle gran belle canzoni». La disintossicazione è finita. Smile è la decima canzone di The Futurist. Robert Downey jr è tornato. Ci sono molti modi di essere hollywoodianamente dannati. Il metodo Belushi: muori sfatto come hai vissuto, ma avendo avuto cura di lasciare un paio di opere di culto girate a dispetto del tuo alterato stato chimico, o forse proprio grazie a esso. Il metodo Courtney Love: vivi facendo dentro e fuori da disintossicazioni, tribunali, polemiche, ed essendo molto più famosa per tutto questo di quanto tu lo sia per la trascurabile opera del tuo ingegno. Il metodo Matthew Perry: fai dentro e fuori dalle cliniche, riuscendo però a restare, nell’immaginario collettivo, un bravo ragazzo - grazie alla potenza dell’imprinting di almeno uno dei bravi ragazzi da te impersonati sullo schermo (il Chandler di ”Friends”, nel caso di Perry). Il metodo River Phoenix: vivi velocemente, e lasci un cadavere così giovane e di bell’aspetto da avere i crismi dell’immortalità. Solo che hai la sfiga di morire lo stesso giorno di Fellini, e siccome la morte è una questione di tempismo almeno quanto la vita vieni dimenticato dalle cronache e dal pubblico - a dispetto dell’impegno profuso nello strafarti. E poi c’è il metodo Downey. Che è quello più faticoso, in cui continui a vivere e a provarci, e ti rialzi, e poi ci ricaschi, e poi ci riprovi, e alterni un successo a quindici lavori dimenticabili, e però hai occhi così buoni e una voce così struggente e hai fatto un paio di cose così di culto che quando torni tutti sono sinceramente contenti, contenti di sapere che stai bene, che ce l’hai fatta, che hai sette vite come i gatti, e abbiamo perso il conto ma sicuramente te ne resta almeno un’altra da vivere. La prima vita è quella degli anni Ottanta. Quella in cui Robert Downey jr interpreta il cocainomane patinato di Meno di zero, indegno adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Bret Easton Ellis. Poi vennero gli anni Novanta, che per Downey contano almeno due vite. Comincia il decennio mettendo la prima pietra della propria eternizzazione- l’interpretazione di Bolle di sapone, culto gay ambientato dietro le quinte di una soap opera, ne fa un’icona omosessuale. Il perfezionamento dello status di icona gay avverrà nel 1999, con l’interpretazione del film-maker omosessuale in Black and white di James Toback. Nel frattempo c’è stata la grande popolarità con Charlot, in cui Robert interpretava Charlie; e ci sono state parti in alcuni dei film più importanti dei decennio (America oggi, Natural born killers), e c’è stato un matrimonio e la nascita di un figlio, Indio. (Di recente la Apple ha chiesto a Downey quali fossero le canzoni più suonate sul suo iPod. Lui ha buttato giù una lista fatta di Peter Gabriel e Phil Collins, i Police e persino With or without you degli U2. Non ci vuole Paolo Crepet per capire che di quella vita che non tornerà mai più, quella che si è conclusa nei primi anni Novanta, quella in cui non era ancora un reduce, Robert Downey jr ha una certa nostalgia). Al concludersi dei decennio, quando Black and white viene presentato in anteprima al festival di Torino, la terza vita di Downey è già iniziata e sta per concludersi. I suoi problemi di droga sono noti, il suo fare dentro e fuori dal carcere ha tratti d’irresistibile comicità. La sua tossica seconda metà di decennio è cominciata nel 1996: fu fermato in macchina dalla polizia stradale della California, nel cruscotto c’erano cocaina, eroina, e una pistola. Da allora cambiano gli addendi (valium, anfetamine... ) ma non il risultato: Downey viene arrestato, messo in libertà vigilata, trovato di nuovo con della roba. La moglie chiede il divorzio, mentre i suoi fan più affezionati non possono non chiedersi se sia una performance: c’è la volta in cui dalla stanza del motel in cui si trova arrivano rumori sospetti, qualche vicino zelante chiama la polizia, guarda caso Downey ha una pistola e della droga e, giurano i tabloid, indossa un costume da Wonder Woman; c’è la volta in cui vaga per Malibu talmente strafatto che entra in una casa e si addormenta nella stanza dei bambini; e c’è la volta in cui va a incontrare Mike Figgis (per il film Complice la notte) scalzo e armato di pistola. Come molti tossici incalliti, Downey suscita i più svariati istinti di protezione e forme di affetto. David E. Kelley, marito di Michelle Pfeiffer e geniale produttore della serie tv ”Ally McBeal”, è uno dei molti ben disposti nei confronti di Robert, e dà il via alla sua quarta vita assegnandogli, nel 2000, il ruolo di Larry, avvocato che inizialmente Ally scambia per uno psicoanalista- raccontandogli tutti gli affari suoi - e di cui s’innamora, per una volta ricambiata. Al primo arresto, in novembre, Kelley è comprensivo e affettuoso. Al secondo, in aprile, si rassegna all’impraticabilità di Downey: il fatto che l’oggetto del desiderio sia di nuovo in galera costringe Kelley a riscrivere il finale di stagione, facendo tornare Larry dall’ex moglie in un’altra città, e facendo concludere la puntata intitolata ”Il matrimonio” senza le previste nozze - quelle di Ally e Larry. (In un bizzarro caso di ”è la vita che imita l’arte, o viceversa?”, l’ennesima ricaduta di Downey viene attribuita dagli amici al fatto che l’ex moglie non voglia fargli vedere Indio). Nel frattempo, in gennaio, per la parte di Larry, Downey aveva vinto un Golden Globe. All’annuncio della vittoria, i suoi colleghi si erano compattamente alzati in piedi, forse perché ancora non sapevano che avrebbe mollato Ally all’altare. il 2005. Robert Downey jr si è rimesso in piedi un po’ alla volta. Woody Allen ha dovuto fare a meno di lui per Melinda e Melinda (l’ha sostituito Will Ferrell) ufficialmente perché nessuna assicurazione era disposta a coprire l’utilizzo di uno ormai più famoso come tossico che come attore. Qualche parte però Downey l’ha ottenuta, in film dimenticabili (The singing detective), in opere d’autore (Eros) e in discreti successi come Gothika. Sul set di quest’ultimo si è trovato una solida fidanzata (Susan Levin, produttrice), di quelle che ti portano alle inaugurazioni delle mostre e alle serate di beneficenza a Washington; soprattutto, di quelle che dicono: «La prima volta che ci ricaschi, ti lascio». Downey riferisce la minaccia con malcelata soddisfazione. Forse aveva solo bisogno di una mamma (la sua, quella vera, dice che fin da piccolo è stato bipolare, per questo prende tutta quella roba), Un paio di mesi fa, ”Interview” ha pubblicato una chiacchierata tra Robert e sir Elton John, che nel 2001 riuscì a farlo uscire di galera per un giorno per interpretare il video della sua I want love. Downey suggeriva che essere strafatti fosse passato di moda, sir Elton ribatteva che dopo una certa età era anche ridicolo, «non trovi che dopo i 30 dovrebbe essere proibito?» e Downey, che compirà quarant’anni ad aprile, concludeva: «Dopo i 30 decisamente, e anche prima se non hai avuto buoni voti all’università». tornato. Con un disco che è tutto struggimenti, uno strano mix di crooner e Peter Gabriel, che fa piangere quasi quanto faceva piangere la sua straziante interpretazione della River di Joni Mitchell in ”Ally McBeal” (canzone che i critici tv all’epoca lessero come una metafora della vita di Downey: «Vorrei tanto avere un fiume per pattinare via»). Con due film in uscita in America: il primo, Game 6, è l’esordio alla sceneggiatura di Don De Lillo; il secondo - che forse sarà al festivai di Cannes e presto arriverà anche in Italia, ha un titolo, Kiss Kiss Bang Bang, che rimanda a una frase della fu critica del ”New Yorker” Pauline Kael: «Le parole Kiss Kiss Bang Bang, che ho visto sulla locandina di un film italiano (di Duccio Tessari, con Giuliano Gemma, ndr) sono forse l’essenza di tutto ciò che attrae nel cinema». Uno innamorabile ma pericoloso, appunto. Pericoloso per se stesso innanzitutto. Quando, in apertura d’intervista, Elton John dice: «Non faccio che sentire belle cose sul tuo conto», Downey replica con l’ironia di chi, di mestiere, sopravvive: «Mai intervistatore si mostrò più impreparato». tornato. E di vite da dissipare ne ha ancora almeno un paio. Guia Soncini