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 2005  marzo 17 Giovedì calendario

Quando la Rai aveva l’allure di una gentile signora brizzolata, Vanity Fair, 17 marzo 2005 Chiedere a Renzo Arbore di raccontare un giorno della sua vita è come aprire la porta su un passato vagamente fantastico, quello spezzone d’Italia in cui le ”signore ai passi” erano angeli brizzolati, i carabinieri chiedevano alle portinaie informazioni sulla famiglia di chi entrava in un’azienda pubblica, esistevano concorsi puliti e la Rai la dirigevano gli artisti e non i giornalisti

Quando la Rai aveva l’allure di una gentile signora brizzolata, Vanity Fair, 17 marzo 2005 Chiedere a Renzo Arbore di raccontare un giorno della sua vita è come aprire la porta su un passato vagamente fantastico, quello spezzone d’Italia in cui le ”signore ai passi” erano angeli brizzolati, i carabinieri chiedevano alle portinaie informazioni sulla famiglia di chi entrava in un’azienda pubblica, esistevano concorsi puliti e la Rai la dirigevano gli artisti e non i giornalisti. La rievocazione avviene nella sua casa romana che, parole sue, «ridonda di stronzate». Allora, quale giorno le ha cambiato la vita? «Un giorno di maggio del ’64. Sulla data esatta potrei sbagliare, su quel che accadde no. Ma debbo premettere, posso?». Premetta. «Mio padre, Giulio, era dentista. Sognò di avere un figlio dottore, ma nessuno di noi lo accontentò. Io ci ho provato, mamma mi mise il camice, andai in ospedale e feci la parte del ”dottor giovane”. Dopo mezz’ora ero su una barella, accudito da meno giovani e più dottori di me. La medicina non era cosa. Al tempo scapuzziavo». Tradotto? «Me ne andavo in giro la notte. Suonavo il clarinetto nei club. Insomma mi esercitavo a non diventare una persona seria. Mio padre mi propose un patto: se ti laurei, poi ti do un anno per provare a fare l’artista. Accettai. Finii Giurisprudenza e poi cominciai la vera sfida». E come andò? «Malissimo. Andavo e tornavo da Roma. Mi ricevevano pure, perché avevo qualche conoscenza. Anche il direttore generale della Rai, Bernabei, mi aprì la porta. Mi ascoltavano, poi alla fine domandavano: ”Sì, ma che ti possiamo far fare?”. Non avevo la risposta: ero un po’ di tutto e molto di niente. L’anno scadeva. Mio padre aveva pronte le sue offerte: un posto al Banco di Napoli, alla flotta Achille Lauro o in uno studio legale. Aveva giocato lealmente. Mi disse: ”Le abbiamo provate tutte, fai ancora un viaggio a Roma, poi ti sistemi”». Una bella prospettiva. Come la evitò? «Per caso. Partimmo come al solito in quattro, su una 500 verde acqua che tengo ancora. C’era Totò, l’avvocato, Giancarlo, l’architetto, e il quarto non me ricordo più. Arriviamo e io vado, come al solito, in processione in via del Babbuino 9, la sede della Rai. Avevo un appuntamento e già mi figuravo la scena: ”Sì, sì, ma che ti possiamo far fare?”. Arrivo al passi e la signora mi ferma». Già appariva sospetto e fuori schema? «No, no. è che si ricordava di me: ’sto ragazzo che andava su e giù una volta al mese e non quagliava mai niente. Mi venne incontro e mi disse che c’era un concorso per maestro programmatore di musica leggera alla radio». Che voleva dire... «Esattamente quel che io sognavo di fare, ma non lo sapevo ancora. La signora dei passi, invece, sì. Lei era l’unica a sapere che cosa potevano farmi fare. Mi mise in mano la domanda di partecipazione e mi spiegò che i termini per presentarla scadevano alle dodici. Mancavano un paio d’ore. Corsi da un mio amico che aveva una ”Lettera 22”. Battemmo a macchina la documentazione, tornai e la consegnai. Erano le dodici meno cinque. La signora ai passi era elegante, brizzolata, gentilissima. Sorrideva. Credo che all’epoca facessero concorsi anche per assumere persone adatte a quell’incarico». Ma perché avevano questo gran bisogno di maestri programmatori? «L’ho scoperto dopo. Pare che quelli in carica fossero, per così dire, sensibili ai suggerimenti delle case discografiche». E la Rai di allora, per una cosa del genere, fece piazza pulita e indisse un concorso... «Eh, era un posto strano quella Rai. La radio era in mano ai musicisti, non era una dirigenza, ma un’orchestra, c’erano perfino contrabbassisti in pensione. E c’erano intellettuali come Umberto Eco e Furio Colombo, c’era Enzo Biagi. L’appartenenza politica contava solo ai livelli più alti, per lavorare bastava essere bravi». Con i dirigenti non si litigava? «Sì, ma come dire, professionalmente. Luciano Rispoli se la prese perché non accettai un incarico che mi aveva proposto». Stile diverso rispetto a Del Noce? «Eh...» Nostalgia? «Beh, era un’altra Italia. Pure buffa. Quando mi chiamarono al concorso ricevetti questa lettera raccomandata tutta formale intestata RAIDIRO, che voleva dire Rai di Roma. Quando lo vinsi mandarono due carabinieri giovani a interrogare la portinaia: ”Ma questi Arbore sono una famiglia perbene?”». Si fanno ancora concorsi per entrare in Rai, che lei sappia? «Che io sappia quello fu l’ultimo. Ed è sbagliato: dovrebbero rifarli». E com’è che dalla dirigenza di artisti si è passati a quella di giornalisti? «Immagino sia una questione di casacche. Ma non funziona: i giornalisti dovrebbero pensare all’informazione, non dirigere le reti. E poi tutti ’sti valzer. Mediaset cresce perché, se trova uno bravo, se lo tiene, la Rai, appena uno ha imparato che cosa fare, lo manda via perché è cambiato il governo». Se non avesse incontrato quella specie di angelo ai passi, che cosa sarebbe ora? «Mah, credo che sarei un avvocato di provincia, vivrei a Foggia, avrei il mio studio e la sera andrei nei club a suonare il clarinetto. Magari avrei imparato a farlo meglio, perché poi non mi sono più applicato a studiare, ma non mi sarei mai divertito. Sarei uno di quelli che aspetta di aver finito di lavorare per vivere. Uno scontento. Io lo so come sono quelli così, perché mi scrivono, mi mandano i loro nastri. Hanno sessant’anni e non si arrendono, pensano ancora che la grande occasione arriverà, il treno passerà e ci salteranno sopra. Ascolto quei nastri e penso: ecco, questo che suona sono io se non mi mettevano in mano quel modulo di concorso». è un uomo fortunato? «Sì, perché ho potuto vivere assecondando le mie passioni. Perché ho potuto fare la tv che mi piaceva, non c’era la dittatura dell’Auditel: con Benigni all’’Altra domenica” andavamo avanti a sketch di quindici minuti, senza preoccuparci dei picchi d’ascolto. E perché non ho la malattia del presenzialismo, come tutti quelli che fanno il mio mestiere». Per quello che era serenamente scomparso dallo schermo? «Sì. Sono andato a togliermi un sacco di sfizi: ho rilanciato la musica napoletana classica, rifatto lo swing, suonato alla Carnegie Hall. La musica è stata la mia parola. Ma qui, solo perché non mi si vedeva in tv, pensavano fossi rimbambito». E adesso? «Eh, Lazzaro è risuscitato. Pure quelli che si erano messi a salutarmi con un cenno del capo mi fermano nei corridoi, mi fanno gli ossequi. è bello scoprire tanto affetto sincero, no?». è un uomo ricco? «Il mio capitale sono gli anni che mi restano da vivere». Come li passerà? «Come quelli alle spalle, da bon vivant: evitando di lavorare senza sapere un perché, non facendomi fregare, viaggiando, comprando un altro sacco di stronzate. Venga, le mostro». Andiamo in giro per la casa «che ridonda»: apre un armadio ed è pieno di pacchi ancora da aprire, regali che «si è comprato». Alcuni hanno un post-it che indica che cosa contengono: gattino salvagocce e altre mirabili apparizioni del superfluo. Da un cassetto escono decine di cravatte di plastica, da un altro collane di sigarette. Che cosa ancora le manca? «Mi piacerebbe fare un programma con Celentano». E perché mai? «Perché è un altro sciagurato, è sempre andato in controtendenza. Dettavano legge i sindacati e lui cantava: ”Chi non lavora non fa l’amore”. Ha riscoperto la religione prima di tutti questi convertiti. Mi stimolerebbe, niente politica però, solo spettacolo». Ha più rivisto l’elegante, brizzolata, gentile signora dei passi? «Come no. Passavo sempre a salutarla, a ringraziarla. Lei non si è mai resa conto di cosa a significato per me». C’è ancora? «No, adesso ci sono i vetri blindati e uno dietro che alza appena gli occhi e ti dice: ”Da chi va? Documenti”, e non saprà mai chi sei». Anche quello ha una casacca? «Possibile». Gabriele Romagnoli