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 2005  febbraio 27 Domenica calendario

Storie di calcio: pistole, risse e sesso ovvero la Lazio dello scudetto, Libero, domenica 27 febbraio 2005 Renzo Garlaschelli, 55 anni, pensionato del calcio e «a quel paese» il pallone, i gol, la panchina, lo stress e le polemiche

Storie di calcio: pistole, risse e sesso ovvero la Lazio dello scudetto, Libero, domenica 27 febbraio 2005 Renzo Garlaschelli, 55 anni, pensionato del calcio e «a quel paese» il pallone, i gol, la panchina, lo stress e le polemiche. In questo paese - Vidigulfo, pochi abitanti e molte mucche - si vive solo di relax e sorrisi, giri in bicicletta, campagna e aria buona. Il football non c’è più, è solo un lontano ricordo, ma che ricordo: stagione 1973-74, scudetto della Lazio, quello di Chinaglia e Maestrelli, dei clan, delle risse, delle pistole e dei night. E di una squadra pazza, capace di litigare e vincere, vincere e litigare. Ed entrare nella storia. Garlaschelli, bella casa. Ma nemmeno una foto della Lazio, perché? «Non ho più nulla: magliette, immagini, medaglie. Ho dato via tutto: col passato ho chiuso e non me ne frega nulla degli oggetti». Che fa adesso? «Il pensionato del pallone, da 10 anni percepisco la pensione Enpals, quella dei calciatori. Col football ho staccato: da quando ho smesso non sono più andato allo stadio, mi sono tolto dalle palle. Mi chiamano in tv per commentare, ma rifiuto. E poche, pochissime interviste, anzi si consideri fortunato...». Grazie. Giornata tipo? «Sveglia, passeggiata, giornali, compro il pane, pranzo e riposo. D’estate vado in bici. Non sono sposato e vivo con mia sorella Luisa, che ha 14 anni più di me». Si è allontanato dal calcio, ma lo guarda? «In tv, lontano dal caos. Vista da fuori, la serie A è sempre divertente, peccato sia massacrata da moviole e polemiche. Si commettono molti falli e forse c’è qualche campione in meno rispetto al passato». Un giocatore che l’appassiona? «Adoro gente come Totti, Cassano, Baggio. Sono talenti ai livelli di Corso, Mazzola, Suarez, Rivera, gli idoli dei miei tempi». Il calcio è cambiato, i campioni del passato sarebbero in grado di giocare in questo football? «Guardi, Rivera oggi farebbe la differenza anche seduto a metà campo». Torniamo a Garlaschelli bambino. Primi calci all’oratorio, il Sant’Angelo in serie D e poi il salto al Como. «Ho accettato il tarsferimento per un solo motivo: volevo evitare la naja troppo dura. E ce l’ho fatta. Poi, già che c’ero, ho tentato di guadagnare qualche lira». Stipendio a Como? «Duecentomila al mese più spese e premi. Finché mi ha cercato la Lazio, e ha fatto il salto di qualità». Era la stagione 1972-73: impatto con Roma e la nuova squadra? «Visite mediche, l’allenatore Maestrelli si avvicina. ”Benvenuto tra noi. Buona fortuna e una sola raccomandazione: passa la palla a Chinaglia, perché è un vero rompicoglioni”». Lo era? «Eccerto, aveva ragione: in campo era insopportabile perché viveva per il gol, e quando non segnava diventava intrattabile, burbero. Finita la partita invece era uno spettacolo di simpatia». E gli altri? Che tipi erano? «Le racconto il primo giorno e capirà: andiamo all’allenamento io, Pulici, Re Cecconi, Frustalupi e Moriggi, tutti sulla Fiat 124 blu di Pulici. Arriviamo a Tor di Quinto e ci troviamo di fronte la Bentley di Wilson, la Jaguar di Chinaglia, poi Ferrari e Mercedes. Ci guardiamo: ”Ma dove siamo finiti?”». Dove eravate finiti? «In un posto di pazzi. Anche perché la stagione era iniziata male con l’eliminazione in Coppa Italia. La colpa, naturalmente, è stata data a noi nuovi, i ”nordisti”: e via con le polemiche, le offese, le risse. Per fortuna poi, alla prima di campionato, una buona prestazione con l’Inter e la scintilla: da quel momento è cambiato qualcosa, siamo diventati la Lazio vera, quella che si è qualificata per l’Uefa e poi ha vinto lo scudetto». Squadra modello Olanda e calcio totale. «Alt, alt. Noi siamo arrivati prima, è stata l’Olanda a copiarci». Torniamo agli eccessi di quella squadra famosa per liti, politica, pistole, sesso. Capitolo risse. «Lo spogliatoio era diviso e ci cambiavamo in due stanzoni. Da una parte il clan di Chinaglia: Wilson, Nanni, Oddi, Petrelli, Facco. Dall’altro quello di Martini e dei ”nordisti”: io, Pulici, Re Cecconi, Frustalupi, Moriggi, D’Amico. Durante la settimana erano botte, invidie e dispetti: se un gruppo beveva vino rosso, l’altro ordinava vino bianco; se uno chiedeva carne, l’altro prendeva pesce. La domenica, però, come per magia eravamo tutti uniti, guai a chi ci toccava. E vincevamo». L’allenamento tipico? «Poca corsa ma tante partitelle. Dal martedì al venerdì erano calci e calcioni e Maestrelli era sempre preoccupato. Per evitare che Chinaglia perdesse, si incazzasse e degenerasse tutto in rissa, faceva finire le sfide solo quando la squadra di Giorgione pareggiava. E a volte si smetteva quando era ormai buio...». Vero che a volte avevate ospiti? «Quasi tutti i giorni giocava con noi Pietrangeli, il tennista, e non era male. Spesso veniva il figlio di Leone, allora presidente della Repubblica. Era una pippa, ma noi ce ne fregavamo degli ospiti, ed erano tackle anche con loro». Clan, spogliatoi divisi e politica. Parliamone. «Siamo passati tutti per fascisti, ma solo perché la Lazio, storicamente, è di destra. Non capivamo niente di politica e non eravamo preparati». Di Canio, dopo l’ultimo derby, ha fatto il saluto fascista. «Quel gesto è stato strumentalizzato. Hanno esagerato». Di Canio è il simbolo della Lazio di adesso, il leader, il trascinatore. Le piace? «Non lo conosco personalmente, però mi è simpatico». Avrebbe potuto far parte della vostra Lazio? «Direi di sì, è l’unico che mi sembra adatto: determinato, di carattere, un po’ suonato come noi. Visto che è romano, sarebbe stato nel clan di Chinaglia». Restiamo alla politica. Lei è di destra? «Ero radicale, mi piaceva Pannella che ho conosciuto anche di persona: andava contro tutto ed era avanti nei tempi. Ora non voto più da qualche anno, sono stufo e mi sembrano tutti uguali. Tornassi alle urne, però, sceglierei ancora lui». Capitolo pistole. Lei sparava? «Io avevo il porto d’armi, come tutti. Ma non la pistola. Eravamo dei pazzi furiosi. Era il tempo del terrorismo e Roma era una città violenta. Ma la nostra, soprattutto, era una moda». Dove vi divertivate? «Quasi sempre in ritiro all’Hotel Americana, al tredicesimo chilometro della via Aurelia. L’abbiamo distrutto a forza di spari: sul retro si faceva il tiro a segno mirando i lampioni e la mobilia vecchia. Ma a volte anche i compagni più giovani...». Scherza, vero? «Un giorno palleggiamo vicino alla piscina e uno di noi manda il pallone intenzionalmente giù dalla vallata. ”Badiani vai a prenderlo tu che sei l’ultimo arrivato”. Roberto obbedisce e scende tra le erbacce, mentre sei o sette si mettono in fila, mirano e via: bum bum bum. Proiettili da tutte le parti che sfiorano il povero Badiani laggiù che piange dalla paura, inginocchiato con le mani che proteggono la testa». Roba da nonnismo... Altre iniziative? «Petrelli va nella stanza di De Rosa, uno sempre serio e zitto. Entra e trova il compagno disteso a letto. Urla agli altri: ”Vediamo se ha le palle e se è da Lazio”. E bum, gli spara in mezzo alle gambe, lo sfiora e buca il materasso. Avesse sbagliato di pochi centimetri, addio De Rosa...». Ancora qualche esagerazione: capitolo vita notturna. «Ci divertivamo, ed era uno dei nostri segreti. Andavamo in ritiro il sabato pomeriggio: pranzo, cinema, cena e partite a carte fino a tarda notte». A soldi? «Naturalmente. La domenica giocavamo e poi tornavamo in albergo: aperitivo, cena, tv, carte e finalmente...». Finalmente? «A mezzanotte iniziava la serata vera!». Cioè? «Era tutto organizzato e Maestrelli faceva finta di niente. Qualcuno faceva venire ”certi personaggi” in stanza, altri andavano al night». Garlaschelli cosa sceglieva? «Facevo coppia fissa con Chinaglia al Jackie O’. Tutta notte lì fino alla mattina dopo, quando tornavamo di nascosto in albergo, facevamo colazione e poi andavamo a casa». E durante la settimana? «Chinaglia era meticoloso e dal mercoledì in poi si concentrava, si preparava e andava a cena da Maestrelli. Io no, mica potevo diventare matto per il calcio. Me ne fregavo e mi divertivo fino al sabato, e Maestrelli mi capiva. A volte arrivavo ancora vestito da nottata, altre volte dicevo: ”Mister, sono stato a mignotte”». Oplà. «Era un modo di dire, nel senso che avevo fatto tardi... E lui: ”Ci sono i giornalisti, fai due giri di campo, fingi di farti male e vai a casa”». Garlaschelli lei era single. Donne conquistate? «Non si dice». Carnevale dice di essere arrivato a mille. Esagera? «I calciatori hanno molte possibilità... Ma io sono gentleman, non faccio né numeri né nomi. Eheheheh». Era la Roma della dolce vita. «In dieci anni di Lazio non ho mai mangiato a casa: sempre al ristorante». Stagione 1973/74, scudetto alla Lazio e noi facciamo un giochino: ogni compagno, un ricordo. Portiere Felice Pulici. «Grande amico. Una sera, appena arrivati a Roma, decidiamo di andare a vedere il Colosseo e partiamo sulla sua 124 blu. Dopo due ore stavamo ancora girandoci intorno per cercare la via del ritorno...». Sergio Petrelli. «Silenzioso, era meglio lasciarlo stare. Pilotava gli aerei ed è stato quello che ha portato la moda delle pistole. Una notte, prima del derby, gli ultrà della Roma vengono sotto il nostro albergo a fare casino. Lui si affaccia in silenzio, e pim pum pam, spara ai lampioni mentre i giallorossi scappano spaventati. Ma la più bella è stata quella della luce». Cioè? «Siamo in ritiro, è ora di dormire e dice al compagno di stanza: ”Spegni la luce”. Quello risponde: ”Non ho voglia di alzarmi, fallo tu”. Pedro prende la mira, pum, spara alla lampadina e dà la buonanotte...». Luigi Martini. «Un duro, cattivo in campo ma squisito fuori. Indimenticabile una sua rissa con Chinaglia in Svizzera, a Sion, dopo una gara di Uefa. Negli spogliatoi Giorgione gli dà la colpa del gol subito, lui perde la pazienza, prende una bottiglia, la rompe e inizia a vibrarla nell’aria minacciando tutti». Giuseppe Wilson. «Il capitano, l’immagine di quella Lazio, un perfezionista». Giancarlo Oddi. « quello con cui sono rimasto più legato, era il protetto di Chinaglia, un vero burino romano. Ma ragazzo splendido». Franco Nanni. «Era troppo buono, un timidone, e per questo motivo era sempre messo in mezzo. Era preso di mira da tutti: qualsiasi cosa succedesse in campo, era colpa sua». Luciano Re Cecconi. «Ha fatto una fine assurda per colpa di una puttanata. Eravamo al Flaminio, lui e Ghedin mi invitano all’aperitivo. Rifiuto e saluto. A casa accendo la tv e sento la notizia: Luciano ammazzato per aver finto una rapina. Corro all’ospedale, incontro Ghedin che era con lui: era sconvolto, piangeva e ripeteva ”Poteva succedere a me, poteva succedere a me”». Giorgio Chinaglia. «Unico. La mattina, quando eravamo in ritiro, si presentava a pranzo in pigiama con i capelli tutti in piedi e gli occhi appiccicati. Un giorno invece arriva con un giubbotto di renna con le frange lunghe così. Cerca di sedersi sullo sgabello ma non ce la fa. ”Giorgio ma cosa c’è?”. Fa una strana smorfia, si volta e oplà: sul fianco spunta una pistola 44 Magnum tanto grande da impedirgli ogni movimento. E noi tutti a ridere». Qualche rissa? «Era sempre in mezzo. Vigilia del derby, andiamo al cinema. All’entrata si presenta un tifoso giallorosso: ”Chinaglia, a gobbo, domani te famo nero”. Giorgio fa finta di niente e lo lascia sedere, aspetta che si spengano le luci e poi si piazza alla fila dietro. Pum pum pum, tifoso sistemato... Ma quella volta con il presidente...». Ha picchiato anche lui? «Non arrivavano gli stipendi, allora andiamo da Chinaglia e lo carichiamo. ”Giorgio, dici di difendere i nostri diritti ma non conti un cazzo”. Nemmeno il tempo di finire e aveva appeso Lenzini al muro». Mario Frustalupi. «Intelligenza calcistica mostruosa, si piazzava a metà campo e i palloni erano tutti suoi. Bravo e di personalità, come quando litigò con Chinaglia». Forza, racconti. «Solito fine partita con rissa sotto le docce. Giorgione ne dice una di troppo e Frustalupi, d’istinto, gli lancia addosso la scarpa da calcio: Chinaglia si sposta in tempo, i tacchetti di ferro sbattono contro il muro e lasciano la scia di scintille. E poi via, tutti a picchiarsi». Vincenzo D’Amico. «Un talento puro. Eravamo compagni di stanza e passava tutto il tempo al telefono, ogni giorno una ragazza diversa». Tommaso Maestrelli, il mister. «La sua forza era capire quando era il momento di lasciar correre e quando era meglio alzare la voce. Più che un allenatore, era un papà. La sua morte è stata l’inizio della fine di quella Lazio». A proposito: Maestrelli, Re Cecconi, Frustalupi... «Le dirò di più: sa che sono morti anche molti tra i massaggiatori e i magazzinieri? Dicono che quella Lazio fosse maledetta; non ci credo e non ho paura. Quella Lazio è stata unica, il calcio non avrà mai più una squadra così. Ecco perché ho staccato con il passato e me ne sto qui a ricordare lontano da Roma, isolato nel mio paesello». Alessandro Dell’Orto