Giancarlo Dotto, 1 febbraio 2006
Il signore delle mosche: prove inconfutabili dell’esistenza di Satana, 16. Tyson a Sanremo Cominciamo con il dire che il tanto chiacchierato siparietto Bonolis-Tyson all’Ariston di Sanremo è un falso, una patacca
Il signore delle mosche: prove inconfutabili dell’esistenza di Satana, 16. Tyson a Sanremo Cominciamo con il dire che il tanto chiacchierato siparietto Bonolis-Tyson all’Ariston di Sanremo è un falso, una patacca. Un clamoroso caso di plagio. Nella migliore delle ipotesi, una citazione filologica. La sensazione forte era quella del dejà vu. è bastata un’incursione in cineteca per risalire all’originale, Frankenstein Junior di Mel Brooks. Prendete al capitolo 20 della versione in dvd la scena della serata di gala a Bucarest. Come a Sanremo, il palco, la musica, la platea tirata a lucido delle occasioni mondane. Ora piazzategli un paio di baffetti posticci, un colpo di phon e, oplà, prodigio, separati alla nascita, Paolino Bonolis e Gene Wilder, due gocce d’acqua in smoking. Il papillon nero invece che bianco, lo stesso profilo sorcino, la pupilla ipertrofica, la stessa logorrea un po’ ossessa, la gestualità che fagocita. «Ladies and gentlemen», il Dottor von Frankenstein, nipote del Barone, alias Gene Wilder, alias Bonolis, annuncia «The Creature». Si apre il sipario, brividi in platea, appare il Mostro, alias Iron Mike, lo stesso passo barcollante d’automa, lo sguardo vitreo, i dentoni radi, la voce querula che ogni tanto prorompe in una risata allarmante per quanto smodata. Entrambi, si capisce, timidi e bisognosi d’affetto o di denaro, che è la forma più sublime d’affetto. Nella mascella di Tyson il tatuaggio Maori non è meno glamour delle cuciture da montaggio chirurgico. « la massa inarticolata che prende vita e diventa un dandy di città», spiega estasiato al pubblico Wilder-Bonolis. Al suo comando, la Creatura obbedisce, parla, canta, balla. Di là, a Bucarest, i due, che ballano il tip tap sulle note di Puttin’ on the Ritz, di qua a Sanremo, prima Tyson che sbraita Volare e poi insieme, il rap di New York, New York, miglior pezzo ascoltato a Sanremo. La differenza è nell’inconveniente. Alla fine dello show di Frankenstein Junior il Mostro si avventa sulla platea terrorizzata, mentre all’Ariston la Belva firmata Versace si capisce che vorrebbe farlo, ma si limita purtroppo a sudare e a salutare. Per lui e per chi lo ama ventitrè minuti da incubo, l’equivalente di sette, otto round con Holyfield e nemmeno un orecchio da sbranare. Mentre Bonolis (che si capisce ha una fissazione per le patologie estreme) lo interroga, lo palpa e lo abbraccia. Il disadattato di Brooklyn, in primo piano, che quasi ha nostalgia di Don King e non ci prova neppure a capire dove è capitato, ma cerca, s’intuisce, di fissare nella nebbia assoluta l’assegno a cinque zeri che per una mezz’ora farà di lui un uomo meno infelice. Consegnato alla farsa, la voglia di sparire e la necessità di restare, crolla ogni tanto il testone, si copre il viso per la vergogna. Più s’inoltra nella confessione, più si rimpicciolisce ma, al fondo della grandezza umiliata, resta sua la frase più bella di questo e di qualunque Sanremo: «Non sono necessariamente un uomo spirituale. Sono un alchimista che trasforma tutto ciò che è oro in cacca», meritando per questo l’abbraccio e l’insulto finale di Bonolis: «Lei è una bella persona». Giancarlo Dotto