Varie, 1 febbraio 2006
ZORIO Gilberto
ZORIO Gilberto Andorno Micca (Biella) 21 settembre 1944. «Sono lontani i tempi in cui Gilberto Zorio segnalava il suo passaggio lanciando sui soffitti sigarette che rimanevano “magicamente” incollate, o in cui aggrediva con asce affilate i muri delle gallerie per incidervi la parola “Odio”. Tempi di bohème e arte povera, Anni 60 e Porsche alla James Dean, con un immancabile gnocco di pongo fosforescente nero o giallo con il quale scrivere “Confine”, perché s’illuminasse di notte a ricordare l’ostacolo, figurativo, esistenziale, da superare. [...] ha superato i cinquanta, restando uno di quegli “eterni ragazzi” alla Valentino Zeichen, che puoi trovare negli aeroporti di mezzo mondo, da Berlino a Tokyo, da Madrid a Barcellona, sempre alle prese con qualche problema di dogana, perché nello zainetto trasporta materiali chimici, resistenze elettriche, timer, che ogni volta deve spiegare a cosa servono. La chimica, l’elettricità, i meccanismi meccanici. E i materiali: polistirolo, rame, cuoio, piombo, cemento. Sono gli elementi che dagli anni lontani dell’esordio han sempre accompagnato la sua ricerca, la sua emozione, la combinazione di forze contrastanti. Che si materializzano nella figura di una stella a cinque punte, ossessivamente, maniacalmente riproposta da decenni in tutti i modi, contenuto e contenitore di soluzioni visive così ampio da riempire il cielo della sua immaginazione. La stella, dice Zorio, è ciò che da sempre l’uomo ha visto. Lui l’ha trovata incisa sulla corteccia degli alberi in Australia, su antichi papiri egiziani; nella cultura orale o scritta è ovunque: accompagna il viaggio dell’uomo ancorato qui sulla terra. E anche le sue canoe, quelle che scattano come veicoli da autopista, altro non sono che strumenti per inseguire quelle stelle. A Zorio piace il movimento, oltre che il materiale; materiale che comunque, chimicamente in trasformazione, crea movimento. E lo esemplifica nella nuova mostra torinese alla Galleria Persano, dal titolo La tolda silenziosa: in una grande officina semina le sue stelle gigantesche, in verticale, in orizzontale, dando loro un ritmo di giostra, facendole girare e fermarsi di scatto, accendendole di luce o immergendole in un buio di pece, sotto l’inno di una Internazionale da fiera di paese. È una immensa “sala giochi”, un flipper sonoro, allegro, un catalogo di quei materiali che interessano all’artista, una esplosione di vitalità ed energia. Zorio frequenta chimici, fisici, è appassionato di vernici e di polveri, di lampade stroboscopiche tanto quanto di elementi e manufatti anonimi, come gli otri di pelle dove a prender forma è il contenuto liquido che gli si immette. [...] ha creato anche degli alti muri, che sono poi avanposti, torrette, fari, metaforicamente altri punti di vista da cui osservare la sua cosmogonia personale, fatta di materiali che si ricaricano nel buio e poi esplodono in un “domestico” Big Bang di luce. Gli piace fare lavori che spariscono, sottrarli al presente. Un po’ alchimista, un po’ chimico, molto illusionista, ricorda una stella che un collezionista teneva in camera da letto e che si illuminava solo di notte, mortale perché fatta di una resistenza ad altissimo voltaggio. L’energia che brucia e trasforma, il continuo modificarsi dell’esistente, la meraviglia della sabbia che si muta in pasta di vetro. Sculture che cantano, fischiano, sbattono: c’è del suono e del rumore, nei suoi lavori. Perché Zorio ama le voci dei mercati, il brusio degli aeroporti, le sirene che lacerano gli spazi urbani. Una “musica” che è sì strappo del silenzio ma anche espressione di energia della materia, così nei suoi otri di pelle sente la sofferenza dei maiali uccisi, nelle canoe lo schiaffo delle onde, nelle stelle gli attriti dell’atmosfera. Nell’apparente gaiezza dei suoi giocattoli-simbolo, Zorio imprime la fatica e la sofferenza di un estenuante nomadismo esistenziale» (Nico Orengo, “La Stampa” 1/2/2006).