Stenio Solinas il Giornale, 22/02/2005, 22 febbraio 2005
Per farla finita con gli anni 70: un riassunto intelligente e non livoroso, il Giornale, martedì 22 febbraio 2005 Nella primavera del 1975 due squadre di calcio improvvisate, rappresentative di due troupe cinematografiche, si affrontano su un campo sportivo di provincia
Per farla finita con gli anni 70: un riassunto intelligente e non livoroso, il Giornale, martedì 22 febbraio 2005 Nella primavera del 1975 due squadre di calcio improvvisate, rappresentative di due troupe cinematografiche, si affrontano su un campo sportivo di provincia. Il rogo di Primavalle è di due anni prima, ma dal punto di vista dell’odio è un buon anno anche quello, come del resto lo è stato l’anno prima e lo sarà l’anno dopo. Evade Curcio, muore sprangato il missino Ramelli, muore sparato il comunista Varalli, muore investito da un gippone della polizia l’insegnante Zibecchi, i Nuclei Armati Proletari rapiscono il giudice De Gennaro, ci sono i «proletari in divisa» che a volto coperto e a pugno chiuso sfilano per il 25 aprile e ci sono i «ragazzi del massacro» del Circeo. Sul fronte strettamente politico è l’anno dell’eurocomunismo e alle elezioni amministrative la Dc scende al 35,3 per cento mentre il Pci sale al 33,4. La firma del Trattato di Osimo fra Italia e Jugoslavia sancisce il riconoscimento dei confini fra i due Stati e mette la pietra tombale su quella strana cosa che oggi, trent’anni dopo, fa produrre sceneggiati televisivi, deporre corone di fiori, ricordare lutti e sventure: foibe, esodo, Istria, Dalmazia, italianità... Nel rinunciare alla Zona B del mai nato Territorio di Trieste il presidente della Repubblica Giovanni Leone dice con la consueta bonomia: «Non faremo la guerra per cinquecento metri di terreno». In realtà si tratta di cinquecento chilometri quadrati, ciò che una volta si sarebbe definito suolo patrio, interesse nazionale, ma va bene così... La parola patria, scoprirà più tardi uno storico, è allora uscita definitivamente dai dizionari, sostituita dal più anodino e tipografico Paese, e qualche frammento di «nazione» sopravvive solo negli aggettivi che servono a quantificare fenomeni economici (reddito nazionale, prodotto interno lordo) e nelle sostantivazioni brachilogiche proprie del linguaggio sportivo (la nazionale di calcio, la nazionale di nuoto...). Senza esagerare, comunque: il tifo per i Mondiali del ’70, dove l’Italia è arrivata seconda ha fatto arricciare il naso a più di un intellettuale e l’orrore di un oppio nazionalistico del pallone ha dato la stura a interminabili e stigmatizzanti prese di posizione. Giustamente, ai mondiali successivi, l’Italia è stata eliminata al primo turno. E arrivarono i miniassegni. Le due squadre di calcio improvvisate che giocano su quel campo di provincia incarnano due differenti e in qualche modo opposti set cinematografici, ovvero due registi, due film e, in un certo senso, due Italie. Lo abbiamo visto, il 1975 è, sotto molti punti di vista, un anno esemplare anche se a ben guardare ogni anno di quel decennio potrebbe esserlo altrettanto legittimamente: il tasso di odio, ideologizzazione, estremismo, ribellismo, vittimismo, stupidità politica, crisi economica è spalmato su tutto l’arco con omogenea efficacia e senza privilegi di classe, di censo, di rango. E naturalmente se su quel campetto ci sono due Italie metaforiche che si affrontano, ce n’è una terza che affolla le gradinate, o magari sta a casa a guardare la televisione, o è in viaggio per quello che non è ancora un’abitudine, ma è già una realtà: il weekend. Il 1975 è infatti l’anno in cui la Barilla lancia la linea del Mulino bianco, sembra incredibile e invece è vero: per penuria di monete da cento lo Stato ha messo in circolazione i miniassegni di identico valore, l’inflazione è al 17 per cento, ma il 35,4 per cento degli italiani va in vacanza, il 70 per cento con il proprio mezzo di trasporto, a Milano sono in 12 ad avere il telefonino in automobile... maggioranza, quest’altra Italia? Sicuramente sì. Partecipa al grande «assalto al cielo» della minoranza iperpoliticizzata? Sicuramente no. quella per la quale l’estremismo coniugato nelle sue più varie forme non è l’indice di una «guerra civile» non dichiarata ma, appunto, una questione di leggi, polizia, tribunali, assoluzioni, condanne. in suo nome che ancora oggi, quando si parla di amnistia, di soluzioni politiche per quel decennio, dice che no, che allora c’era una democrazia e che chi la aggredì non va amnistiato ma, più semplicemente, giudicato e punito. In punto di diritto ha ragione, ma vale la pena di fare in merito qualche cifra e qualche considerazione. Le cifre, innanzitutto. Numericamente i Settanta possono essere così riassunti: 7.866 attentati contro caserme di carabinieri, uffici pubblici, commissariati; 4.290 atti di violenza durante manifestazioni e cortei; 362 morti e 172 feriti in agguati; 11 stragi (per un totale di 151 morti e oltre 500 feriti); 9 «esecuzioni» all’interno delle formazioni combattenti (per eliminare i ”deviazionisti” e i ”traditori”); 15 rapimenti politici; 597 sigle di formazioni che hanno rivendicato attentati o agguati (484 di sinistra, 113 di destra); 37 terroristi uccisi in conflitti a fuoco con le forze dell’ordine. Dietro questi numeri c’è un clima, un’epoca, un modo di sentire. Il clima, l’epoca e il modo di sentire che fa scrivere a Leonardo Sciascia: «C’è una classe al potere che non muterà mai se non suicidandosi. Non voglio per nulla distoglierla da questo proposito e contribuire a riconfortarla». Un clima, un’epoca e un modo di sentire che fa dire a Eugenio Montale, a proposito del fuggi fuggi dei giudici popolari al processo di Torino contro il nucleo storico delle Brigate rosse: «Sono un uomo come gli altri e avrei avuto paura come gli altri. Non si può chiedere a nessuno di essere un eroe». Un clima, un’epoca, un modo di sentire che ai cancelli della Fiat fa capire a Giampaolo Pansa come nel brodo di coltura estremistico ci siano sapori operai, odi aziendali, sfiducia istituzionale, disprezzo sociale e politico... Un clima, un’epoca, un modo di sentire nel quale il reato di associazione sovversiva può dire tutto e niente e quello di banda armata si presta a molte ambiguità. Si può derubricare quanto sopra a pura e semplice contabilità giuridica, sanzione giudiziaria? Football, Marx e poesia. La partita di quel giorno e di quella primavera del 1975 è fra la troupe di Salò, che si rivelerà l’ultimo film di Pier Paolo Pasolini, e quella di Novecento, del regista Bernardo Bertolucci. Bertolucci non sa nemmeno com’è fatto un pallone, e infatti finge di fare l’allenatore. Il suo approccio con il calcio è del genere degli intellettuali contrari all’oppio nazionalistico del football prima ricordati. Probabilmente non lo giudica nemmeno un passatempo: è figlio di un poeta, ha un sacco di soldi, è stato a Parigi, ha girato Ultimo tango, coniuga Marx e Freud, sesso e rivoluzione, ha la erre moscia e ama il proletariato, anche se non ne sopporta l’odore. Pasolini no, lui per il calcio darebbe l’anima, e infatti gioca, all’ala, si danna, corre, urla. Per lui il calcio è una delle cose ancora genuinamente popolari rimasta, un piacere, appunto, di popolo, né plebeo né aristocratico, né borghese, ma trasversale, italiano, nazionale, se non fosse che in quell’anno di grazia 1975 la nazione, lo abbiamo detto, non va più di moda, e la patria è stata derubricata a Paese. Salò e Novecento sono due squadre di calcio contrapposte e due Italie diverse e fra loro in conflitto. Lasciamo stare la qualità dei film, che in entrambi i casi è mediocre, gravata dall’eccesso di simboli, di contenuti, di messaggi che i registi vi affastellano. Artisticamente parlando gran parte dei Settanta è così, e il 1975 non fa eccezione, è ad alto tasso ideologico: il più bel romanzo del decennio è Il giorno del giudizio di Salvatore Satta, ma è un libro uscito postumo, il successo del decennio è Porci con le ali, e ho detto tutto. Al cinema le cose vanno meglio, ma nessuno dei film riusciti che allora escono incarna l’epoca meglio dei due film falliti qui presi in esame. L’Italia di Salò, ovvero l’Italia di Pasolini è un qualcosa di mostruoso, di funereo e di delittuoso, un brulicare di corpi, un groviglio di vizi, un fetore di corruzione e di morte, un conformismo cieco e disperato. «Gli italiani sono divenuti in pochi anni un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo. Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana, l’avevo amata. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere. Ho visto dunque, ”coi miei sensi” il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione». E ancora: «Il crollo del presente implica anche il crollo del passato. La vita è un mucchio di insignificanti e ironiche rovine». un cataclisma antropologico quello che Salò mette in scena, è un cataclisma antropologico quello che Pasolini vede scorrere davanti a sé, sente scorrere dentro di sé, «il genocidio dell’Italia tradizionale, borghese e popolare». Di lì a qualche mese finirà ammazzato in un modo che didascalicamente, quasi, accumula particolari su particolari di quella «irreversibile degradazione». Una macchina di potente cilindrata, una Giulia Gt, come strumento di potere e di seduzione, una cena al Biondo Tevere, trattoria dal nome grottesco per quello che avrebbe voluto evocare e che invece era sotto gli occhi di tutti, la scelta dell’idroscalo di Ostia come «luogo d’amore», non più borgata, non ancora città, l’esemplare umano scelto, facies tipica da «ragazzo di vita», ma ritrovata con un quarto di secolo di ritardo su quella «meglio gioventù» pasoliniana di cui non conservava neppure la calata romanesca verace, ma un melting pot underGarigliano... Al confronto l’Italia di Novecento è melodramma, comunismo alla parmigiana, immense bandiere rosse che ricoprono il popolo che ha sconfitto il fascismo, la storia di classe in chiave antipadronale, retorica e trionfalismo populista, i buoni e i cattivi, il Bene e il Male, l’immancabile vittoria delle forze del Progresso contro quelle della Reazione. Bertolucci la racconta dalla parte degli «unti del Signore», un po’ nello stile degli Uomini e no del peggior Vittorini del ’45. Lì il capo dei fascisti si chiamava Cane nero, qui si chiama Attila... E tuttavia è in buona compagnia, quell’Italia esiste, nell’idea che la Resistenza è stata tradita, che la Rivoluzione si può e si deve ancora fare, che l’avversario politico è un nemico metafisico, che solo lì è la parte sana, la parte colta, la parte giusta, i migliori, oi polloi... Da questo punto di vista Pasolini è ancora più solo: «Ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente: abbiamo cioè frettolosamente e spietatamente voluto credere che essi fossero predestinati razzisticamente a essere fascisti. Nessuno di noi ha mai parlato con loro o a loro. Li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del Male». Duri e puri. In quel 1975 ci sono anche loro, ci sono anche i fascisti. C’è Sergio Ramelli, sprangato a morte a 19 anni, ma c’è anche l’altra faccia, i «rappresentanti inevitabili del Male» come i massacratori di due povere disgraziate in una villa sul litorale laziale, i «giustizieri», i bombaroli, i camerati duri e puri, i campi paramilitari, la mistica del basco, gli slogan «Basta coi bordelli, / Vogliamo i colonnelli»... Il golpe in Cile è di appena due anni prima, i colonnelli greci hanno perso il potere appena un anno prima, i vietcong sono invece proprio allora entrati a Saigon, proprio allora esce di scena il generalissimo Franco. L’anno dopo ci sarà il golpe in Argentina, la morte di Mao in Cina... Il pendolo della politica e dell’ideologia oscilla da destra a sinistra e permette le più perverse illusioni. I fascisti sono anche su quel campo di calcio dove Bertolucci allena e Pasolini corre. O almeno così ci racconta Alberto Garlini in quello che è il più straordinario e lussureggiante romanzo italiano di questi ultimi anni, Fùtbol bailado (Sironi). Nato nel 1969, nel decennio dei Settanta Garlini era un bambino, ma da scrittore lo descrive come se ci avesse sguazzato dentro. lui a raccontarci quella partita che noi abbiamo trasformato in metafora di due Italie contrapposte, ed è sua l’invenzione letteraria di un terrorista nero, Vincenzo, trait-d’union fra Pasolini e gli assassini che Pasolini stesso si è scelto per una morte violenta che sia anche sacrificio rituale, agnello di Dio immolatosi per i peccati del mondo, e che invece quella morte vorrebbe fermare, ma non può, pedina com’è di un gioco più grande di lui. C’è anche questa Italia minoritaria e ai margini in quel decennio: esperti di esplosivi o artificeri maldestri, a libro paga dei Servizi oppure cani sciolti senza un progetto, culturisti dello spirito e manovali della mente, nicciani di borgata e delinquenti in servizio permanente effettivo... Si incontrano, si infiltrano, viaggiano, teorizzano, eseguono, muoiono in un conflitto a fuoco, in un attentato fallito, in un regolamento di conti, per un’overdose, fuggono all’estero, marciscono in galera, si dissociano, non parlano, quando ce la fanno cercano di ricostruirsi una vita... Lungo il crinale di uno scontro ideologico ad alzo zero sono vittime e carnefici, la fascia impresentabile di un sistema bloccato all’interno del quale la violenza non è altro che politica impazzita. A fianco a loro scorrono le immagini di una Destra che si dichiara pronta «a surrogare lo Stato», che chiama allo «scontro fisico», imbarca colonnelli e generali, millanta alleanze con i poteri forti, invoca leggi speciali, mitizza l’ordine, le Forze armate, la maggioranza silenziosa, i «voti in frigorifero», e in quattro anni passa dall’8,7 per cento al 6,1 e si vede scippare via metà gruppo parlamentare per una scissione moderata e pilotata. Sospesi sul baratro. Nel romanzo di Garlini il 1975 è anche l’anno in cui un giovane calciatore sedicenne incanta gli appassionati con il suo fùtbol bailado, il calcio danzato che si gioca nelle strade e nelle piazze, l’idea che una partita sia gioia ed emozione, piacere estetico e non ansia di prestazione, attività ludica e non economica. l’immagine di una Italia come potrebbe essere, francescana e felice anche con poco, allegra e animata di speranza, capace di attingere da quella passione gli elementi per una resurrezione, un Paese civile, dove non ci si odia, dove ancora si è capaci di sorridere, lo sport non è un’industria, il tifo non è violenza e giocare, «tifare» non è una questione di classe, fa parte della vita, appartiene a tutti e snobbarlo è tipico delle minoranze deboli, frustrate, come ha ben spiegato Adriano Sofri in quel malinconico piccolo capolavoro che è Giocare da libero (Limina editore)... un’illusione, naturalmente. Il calcio-scommesse scoppierà di lì a cinque anni, ma è, appunto, il bubbone che esplode di una corruzione che ha infettato tutto. Ci sono già state le tangenti petrolifere, lo scandalo Lockeed, il crack Sindona, la bancarotta di Caltagirone. Il giocattolo si è rotto e non lo ripareremo più. Il volto istituzionale del Paese fa il resto. Bizantinismi incomprensibili, governi a ripetizione, partitocrazia imperante, la fine emblematica della Prima repubblica con la cerimonia funebre di Stato per Aldo Moro, una Repubblica sprofondata nella notte mentre quel cadavere «desaparecido» per l’ufficialità viene seppellito in forma privata a Turrita Tiberina. Ancora un decennio e andrà tutto in pezzi. Ma questo è un altro articolo... Ciò che qui si è invece assemblato non è altro che un insieme di appunti sparsi su un anno che racchiude e spiega in sé i Settanta, la parte per il tutto si sarebbe detto una volta. Interrogarsi su di essi vuol dire raccontare e rivivere quel lungo inverno del nostro scontento, quando in molti (tutti?) fummo sul baratro e ancora non sappiamo come e perché ci ritirammo in tempo. Stenio Solinas