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 2005  febbraio 25 Venerdì calendario

Gli scomposti anni al Cremlino di Gorbaciov, la Repubblica, venerdì 25 febbraio 2005 «Lo conosco bene - disse Andrej Gromiko -: è giovane, ma ha i denti d’acciaio»

Gli scomposti anni al Cremlino di Gorbaciov, la Repubblica, venerdì 25 febbraio 2005 «Lo conosco bene - disse Andrej Gromiko -: è giovane, ma ha i denti d’acciaio». Quel plenum del Comitato Centrale non riusciva a decidersi tra la tentazione a mummificare ogni leadership in gerontocrazia (quasi per un bisogno istintivo di ingessare fisicamente l’ortodossia a garanzia dell’immobilità, per evitare ogni cambiamento) e la vertigine di un precipizio che apriva verticalmente la «classe eterna» al vertice dell’Urss per puntare su un uomo di vent’anni più giovane del Segretario Generale Cernenko, appena morto dopo dodici mesi di completa paralisi. Gromyko garantì per lui, rassicurò i conservatori, e l’11 marzo di vent’anni fa Mikhail Sergeevic Gorbaciov arrivò alla guida del partito comunista dell’Urss e della superpotenza sovietica, minacciosa e stremata padrona di metà del mondo. Il comunismo sovietico aveva un bisogno disperato di cambiamento per sopravvivere, ma non disponeva di alcun progetto per cambiare se stesso. L’unico tentativo di riforma fu abbozzato, forse appena intuito, da Jurj Andropov, il Segretario Generale che nel 1982 succedette per due anni alla lunga «stagnazione» di Leonid Breznev. Capo del KGB dal 1967, Andropov conosceva meglio di tutti i piedi d’argilla su cui ormai si reggeva il gigante sovietico e nello stesso tempo aveva in mano i dossier di tutti i giovani dirigenti più promettenti del partito. Prima di ammalarsi di un male che il silenzio del potere sovietico rendeva impronunciabile, Andropov chiamò a Mosca questi giovani bolscevichi e ancora dalla stanza della sua clinica creò un network del tutto irrituale, mettendo in contatto tra loro Gorbaciov, Ligaciov e uomini che sarebbero poi rimasti affondati nell’apparato di periferia. Tra loro, protetti dal Segretario Generale, cresceva sottovoce l’eresia più ortodossa: il comunismo doveva cambiare, per restare se stesso. Non esiste una teoria politica, un pensiero, a guidare una stagione che pure metterà fuori gioco la cremlinologia cambiando involontariamente la storia d’Europa e liberando la geografia dell’Urss, fino a travolgere la stessa «natura» sovietica, immobile e intatta per settant’anni, costruita com’era col ferro e col fuoco per durare per sempre. Gorbaciov è tutto prassi, sospinto da uno stato di necessità che lo porta a cambiare, senza sapere dove il cambiamento lo porterà. Non ha un ceto di riferimento, né una leva sociale a disposizione, né una cultura di ricambio. Si muove interamente dentro l’orizzonte del comunismo? perestrojka non è altro che «ristrutturazione»? tentando un’opera di manutenzione straordinaria, senza sapere dov’è la sponda verso la quale si dirige a zig zag, mentre dietro di lui la vecchia sponda brucia. La sponda, evidentemente, sarebbe diventata visibile solo pronunciando la parola definitiva della fuoruscita dal comunismo: democrazia. Ma tutto il gorbaciovismo sta al di qua di quell’approdo, che non riesce a concepire, tutta l’idea-forza del leader è imprigionata nel fascino a sovranità limitata di due concetti intermedi, di due parole a metà: perestrojka invece di democrazia, glasnost (trasparenza) invece di verità. Il comunismo sovietico ferma qui il suo alfabeto leninista, non riesce nemmeno nella fase di massima torsione ad andare oltre se stesso. Eppure in quei sei anni il mondo ha creduto possibile l’impossibile, perché tutte le spinte scomposte che Gorbaciov ha messo in campo avevano superato la soglia russa dell’incredibile. Per una fase, anche i russi hanno pensato che fosse lecito tornare a sperare, per la prima volta dopo il «disgelo» di Nikita Krusciov. Quando la glasnost ha liberato all’improvviso il film Pentimento di Abuladze, sullo stalinismo, e tutti correvano a vederlo nelle sale. Quando l’Armata Rossa si è ritirata dall’Afghanistan e il telegiornale delle nove ha mostrato il generale Gromov che passava per ultimo il ponte sull’Amu-darja. Quando è cominciata la trattativa sugli euromissili. Quando a dicembre un treno da Gorkij è arrivato alla Jaroslavskij Vaksal alle sette meno un quarto di mattina ed è sceso Andrei Sacharov, uscendo per sempre dal confino. Quando il maestro Ljubimov è tornato sul palco del teatro Taganka a far muovere nel buio sovietico Woland e Margherita. Quando si è cominciato a parlare di un vero Parlamento, non un Soviet, di candidati liberi alle elezioni accanto ai nomi del partito, quando la televisione ha trasmesso per la prima volta la messa di Natale, duemila anni dopo la conversione della Rus’ al cristianesimo. Per un momento, ci hanno creduto anche i «shestidisiatniki», come li chiamano a Mosca, cioè gli uomini degli Anni Sessanta, che si erano illusi con Krusciov e avevano giurato di non illudersi mai più. Quegli intellettuali tornati alla politica senza il partito potevano diventare il ceto di appoggio della perestrojka. Ma presto, il gorbaciovismo si apre in due. All’estero, acquista credito con Thatcher prima, con Kohl, con Reagan che arriverà a Mosca per camminare a piedi sull’Arbat, con Papa Wojtyla. In patria, è imprigionato nei rapporti di forza dentro il Politbjuro dove uomini come Egor Ligaciov, a nome di tutto l’apparato bolscevico, cominciano a porre a Gorbaciov il dilemma capitale, in cui si perderà: sei il primo riformatore dell’Urss, come vuole l’Occidente, o sei l’ultimo Segretario Generale, come vuole il partito? Gorbaciov risponde con la sola formula in cui crede, con lo stato di necessità di cui è portatore, e che tiene insieme la sua eresia e la sua fedeltà: la riforma, il cambiamento, è l’unico orizzonte possibile per il comunismo di fine secolo. Questa è la frontiera politico-culturale oltre la quale l’uomo della perestrojka non riesce a spingersi, perché rappresenta la curva estrema della sua formazione e anche della deformazione possibile del sistema, ricevuto da Gorbaciov in custodia dal Comitato Centrale perché ne fosse il difensore supremo. Un limite, ma un limite appassionato, che porta Gorbaciov a testimoniare questa sua formula in ogni parte del mondo. Non solo nei parlamenti occidentali che lo applaudono perché vedono in lui la mutazione del «nemico ereditario» sovietico: ma anche davanti a platee ostili come l’Avana o Berlino, che lo circondano di gelo e di rifiuto. La sua difficoltà gli rallenta il passo, l’opposizione del partito imprigiona le riforme, l’incertezza culturale annebbia il percorso, la contraddizione per cui il capo del Pcus deve diventare il distruttore della sua onnipotenza diventa paralisi. Gli intellettuali resuscitati alla politica dalla perestrojka l’abbandonano per parole più radicali, le assemblee con i primi candidati liberi diventano un processo agli uomini di partito («quanti metri quadrati conta il tuo appartamento? Dov’eri negli anni di Breznev? Dove compri le medicine?») la riforma economica inceppa il vecchio meccanismo di approvvigionamento minimo senza sostituirne uno nuovo. Ma intanto le maglie di ferro del sovietismo stremato si stanno allargando. Dal Caucaso arrivano le prime rivolte e le minacce di morte per Gorbaciov, fino alla profezia scritta dall’ayatollah Khomeini direttamente al Segretario Generale: « chiaro come il cristallo che l’Islam erediterà le Russie». Dal Baltico, arriva l’anticipazione della fine dell’Impero, quando un milione di persone scende nelle strade di Vilnius dietro una croce, chiama fuori dal Conservatorio il professor Landsbergis incurante della statua di Lenin che punta il dito verso la porta, e gli chiede di guidarlo fuori dalla prigione sovietica dell’Urss. Quando il conflitto con Eltsin si compie e un uomo maledetto dal partito per la prima volta nella storia si ribella all’anatema, sfida il Pcus e si fa eleggere presidente della Russia, Gorbaciov rimane Mikhail Senzaterra. Dalla corazza sovietica è uscita la Russia, autonoma, ribelle, dunque davvero eterna, capace di ridurre l’Unione a una sovrastruttura. Il golpe di agosto, nel ’91, è una reazione tardiva e automatica del partito allo svuotamento del potere e alla perdita di controllo sul Paese, dopo sei anni di perestrojka. Se guardiamo al quadrilatero di ferro della giunta golpista (Janaev capo dell’apparato del Pcus, Krjuchkov capo del Kgb, Yazov capo dell’Armata Rossa, Pugo capo delle truppe dell’Interno) vediamo che il perimetro è quello del golpe comunista classico, tanto da avverare l’antica profezia russa: «Lo zar o è sanguinario o è insanguinato». Così anche il comunismo, che può essere spezzato ma non accetta di essere riformato. Ma a differenza di Krusciov, Gorbaciov aveva destabilizzato il sistema per sei anni, e aveva stabilizzato alcune linee spontanee di fuoruscita dal sistema. Così, paradossalmente, è anche merito suo - un merito involontario - se il comunismo è morto in Europa e se la perestrojka non è finita in un’altra gelata di stagnazione. I golpisti credevano di bloccare la perestrojka, mentre mettevano in scena l’autofagia del bolscevismo, settant’anni dopo. Ezio Mauro