Giancarlo Dotto, 1 febbraio 2006
Il signore delle mosche: prove inconfutabili dell’esistenza di Satana, 15. Le massaggiatrici di Manchester Se c’è una strafica di un metro e ottanta stesa su di te che si prodiga per animare ciò che fa la differenza tra te e un cadavere qualunque e tu che, mentre le palpi abulico una tetta, te ne esci all’improvviso gorgheggiando «Ah che bel vivere, che bel piacere per un barbiere di qualità! Tutti mi chiedono, tutti mi vogliono» o, se il tuo genere è Tiziano Ferro, «La notte scalpitava, strillava, tuonava», le cose sono due, sei completamente scemo o sei invece una volpe, il più astuto di tutti e magari, vallo a sapere, ti stai salvando da una figura barbina e da una notte in guardina
Il signore delle mosche: prove inconfutabili dell’esistenza di Satana, 15. Le massaggiatrici di Manchester Se c’è una strafica di un metro e ottanta stesa su di te che si prodiga per animare ciò che fa la differenza tra te e un cadavere qualunque e tu che, mentre le palpi abulico una tetta, te ne esci all’improvviso gorgheggiando «Ah che bel vivere, che bel piacere per un barbiere di qualità! Tutti mi chiedono, tutti mi vogliono» o, se il tuo genere è Tiziano Ferro, «La notte scalpitava, strillava, tuonava», le cose sono due, sei completamente scemo o sei invece una volpe, il più astuto di tutti e magari, vallo a sapere, ti stai salvando da una figura barbina e da una notte in guardina. Che fa invece quel pirla di Gozzilla, quel depravato elementare dell’Armando, per la serie l’uomo non è di legno, meritandosela tutta la guardina a Manchester, ma anche la geniale gogna dei tabloid inglesi dove la calunnia è un venticello? Scambia il massaggio per un messaggio e, invece d’intonare sul più bello un «Va pensiero sull’ali dorate» o anche un «Mamma son tanto felice», come sarebbe senz’altro successo in un musical di Vincent Minnelli ma anche di Nino D’Angelo, diventando così il mito di tutte le massaggiatrici di Manchester, si ritrova il meschino con una monumentale erezione alla Siffreddi d’altri tempi e il problema di che farsene. Soprattutto quando la carne è debole, cantare fuori di sé è l’unica chance che abbiamo per ingannare la scimmia che è dentro di sé. Nei musical, fateci caso, non c’è mai un’erezione, mai una fregola. Qualcuno ogni tanto ci prova, vorrebbe, azzarda, ma subito gli parte a tradimento l’attacco melomane, il vocalizzo, il passo di danza e tutto d’incanto frana nell’inattendibilità. Storie, intrecci, identità. A non capirlo non è solo Gozzilla. Peggio di lui quel legno stonato di Letizia Moratti che, invece d’istituire come materia d’obbligo nelle medie e nei licei l’opera di Vincent Minnelli, la vita di Gene Kelly, l’uso del diaframma in Elvis Presley e in Carmelo Bene, ma anche il tip tap di Fred Astaire da insegnare prima di una lezione di teologia, fondamentale per scagionare l’equivoco dell’anima, lei, la grulla, medita di cancellare tout court la musica dalla scuola. Invece di portare nelle aule il karaoke, magari chiamandolo singing approach che fa più chic, e cantare le imprese dei tebani o il teorema di Pitagora. Mille volte più arguta Maria Filippa la Sanguinaria, che i suoi amici in collegio li fa ballare e cantare e, quando parlano o pensano, sono accessori grevi di cui liberarsi in fretta. Buttarla sul solfeggio è il metodo infallibile contro la balbuzie del pensiero. La musica ovunque per tramortire il mondo, la gente che si affaccia alle finestre, distesa nelle alcove, nelle corse campestri, in guerra, quando prendi l’aperol con gli amici, accovacciata nelle funzioni religiose o corporali, liberare un «Core ’ngrato» o un «Te Deum» sul più bello, comodi sull’ovale. La musica dovrebbe invadere le case, gli uffici, gli schermi. Enrico Ghezzi, con la sua canottiera da ergastolano, che presenta di notte i suoi film, non più fuori sink e nemmeno fuori sing, sulle note di «Grazie dei fior». Eviteremmo telefonate come quella della massaia insonne che ha chiamato la scorsa settimana i centralini Rai per avvisare: «C’è un signore alla tivù che non sta bene». Giancarlo Dotto