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 2005  febbraio 24 Giovedì calendario

Il «gonzo» non conobbe la distanza tra vita e scrittura, la Repubblica, giovedì 24 febbraio 2005 Hunter S

Il «gonzo» non conobbe la distanza tra vita e scrittura, la Repubblica, giovedì 24 febbraio 2005 Hunter S. Thompson è stato uno di quei rari scrittori che sono ciò che sembrano. Le sopracciglia sul genere «famiglia Addams» in foto di copertina degne dei libri di Stephen King, unite agli orrori da batticuore delle sue storie, mi hanno sempre fatto pensare a Dracula. Quando infine ho incontrato King, egli si trovava a Miami, insieme ad Amy Tan, a suonare in una jook-house band che si chiamava i «Remainders». Era il Sole in persona, una risata impetuosa, l’immagine stessa del divertimento innocente, un Conte Dracula che nella vita reale di fatto era un Peter Pan. Il genio che ha scritto quei romanzi buffoneschi e grotteschi, Striptease, Sick Puppy e Skinny Dip, di persona è un gentiluomo del Sud tanto intelligente, profondo, compassato, e perfino cortese che non potresti pretendere di più (io pretendo sempre, senza mai ottenere). Ma la follia «gonzo» - termine coniato da Hunter - del libro Paura e disgusto a Las Vegas di Hunter Thompson (1971) e i suoi classici come The Kentucky derby is decadent and depraved (1970) erano il succo di quel che ci si poteva trovare. Non si pranzava né si cenava con Hunter Thompson. Si prendeva parte a un avvenimento eccezionale, all’ora di mangiare. Non avevo ancora incontrato Hunter quando nel 1967 fu pubblicato il libro che decretò che egli era un personaggio letterario, The Hell’s Angels, a strange and terrible saga. Si trattava di brillante giornalismo investigativo del genere un po’ rischiosetto, scritto in uno stile e con un tono che nessuno aveva mai visto o sentito prima. Il libro rivelava che l’autore aveva preso parte a una festa data in onore degli Hell’s Angels da Ken Kesey e dalla sua comune hippie, i Merry Pranksters, anche se all’epoca il termine in voga non era «hippy» bensì «impasticcati«. Quella festa sarebbe diventata la scena madre di un libro che io stavo scrivendo, The electric Kool-Aid acid test. Così, senza preavviso, telefonai a Hunter in California ed egli non soltanto mi comunicò tutto ciò che si ricordava, ma mi fece arrivare anche le audiocassette che aveva registrato al quel primo famoso raduno che aveva segnato l’alleanza degli hippy e delle gang di «motociclisti fuorilegge», una strana e terribile saga, sì, che ebbe il suo culmine quando il gruppo dei Rolling Stones assunse gli Angels come addetti alla sicurezza per un loro concerto ad Altamont, in California, quando poi gli «addetti alla sicurezza» picchiarono a morte uno spettatore con delle stecche da biliardo. Per ringraziarlo del suo aiuto, invitai Hunter a pranzo, la volta successiva in cui fosse venuto a New York. Venne in una splendida giornata di primavera del 1969. Si rivelò uno di quegli alti uomini ossuti e slanciati, con lo sguardo acceso in modo pressoché allarmante, che più di altre categorie di esseri umani, da quanto mi risulta, sono inclini alle crisi maniaco-depressive. Hunter non è che facesse conversazione: parlava con raffiche di parole che gli uscivano a getto su un determinato argomento. Ci avviammo a piedi lungo la West 46th street verso il ristorante, il Brazilian Coffee House, e passammo accanto al negozio Goldberg Marine Supply. Hunter si fermò, si infilò nel negozio e ne venne fuori reggendo un piccolo sacchetto di carta marrone. Il mio sesto senso, probabilmente messo in moto dai suoi occhi così allarmanti nonché dal su e giù di una dozzina di centimetri che faceva il suo pomo d’Adamo, mi suggerì di non chiedergli che cosa vi fosse dentro. Nel ristorante egli tenne il sacchetto sul tavolo, mentre mangiavamo. Alla fine lo sciocco che è in me si fece quanto mai curioso: doveva a tutti i costi chiederglielo. E io gli chiesi: «Che cosa c’è nel sacchetto, Hunter?». «Ho qui qualcosa che farà evacuare questo ristorante nel giro di venti secondi», rispose Hunter accingendosi ad aprire il sacchetto. I suoi occhi pulsavamo a 300 watt. «No, non importa», gli dissi. «Ti credo! Mostramelo più tardi!». Dal sacchetto Hunter estrasse quella che mi parve una bomboletta da viaggio di schiuma da barba, tolse il coperchio, premette e provocò il più violento rumore in grado di perforare il cervello che io abbia mai sentito. Non fece evacuare il Brazilian Coffee House. Lo paralizzò. Il locale divenne così silenzioso che si poteva sentire una sveglia come quelle di una volta ticchettare in cucina. Buona parte dei gaucho churasco rimasero lì impalati, con la forchetta a mezz’asta. Il barman divenne una statua, con lo shaker retto da entrambe le mani appena sotto il mento. Hunter fece scivolare la bomboletta nel sacchetto. Si trattava di un dispositivo d’allerta per le emergenze in mare, udibile a oltre 20 miglia sull’acqua. La volta successiva che incontrai Hunter fu nel giugno 1976, all’Aspen Design Conference di Aspen in Colorado. A quel tempo Hunter aveva comperato una grande fattoria nei pressi di Aspen nella quale pare che allevasse soprattutto cani pericolosi e custodisse armi letali come una 357 magnum. Ne parlava costantemente, forse a mo’ di monito nei confronti di coloro - presumibilmente Hell’s Angels - che gli avevano fatto avere minacce di morte. Lo invitai a cena in un ristorante di classe di Aspen. Io e Sheila, che di lì a poco sarebbe diventata mia moglie, facemmo le nostre ordinazioni per la cena alla cameriera. Hunter ordinò due banana daiquiri e due banana split. Una volte che li ebbe terminati, fece avvicinare la cameriera, agitò in tondo il suo dito indice nell’aria e disse: «Portamene ancora». Poi, senza un attimo di esitazione, si ingollò il suo terzo e poi il suo quarto banana daiquiri, seguiti dalla sua terza e dalla sua quarta banana split, dopo di che se ne andò via con un bicchiere di bourbon Wild Turkey in mano. Quando raggiungemmo la grande tenda nella quale si svolgeva la conferenza, uno degli uscieri si stava rifiutando di farlo entrare con il bicchiere di whisky in mano. Scoppiò un’accesa discussione. Nell’orecchio dissi a Hunter: «Passami il bicchiere, lo nascondo sotto la giacca e te lo ridò una volta che siamo dentro». Ma la proposta non lo interessò minimamente. Quello che non avevo capito era che non si trattava di entrare nella tenda e di bere whisky. Si trattava piuttosto del gran finale, dell’evento della sera, dell’happening che avrebbe dovuto sconvolgere l’ordine convenzionale delle cose. Di lì a poco fummo tutti cacciati via da quel posto, e Hunter non avrebbe potuto essere più felice. Per quella sera calò il sipario. Nel modo di ragionare di Hunter c’erano sipari... e sipari. Nell’estate del 1988 mi capitò di trovarmi al Festival di Edimburgo in Scozia quando un pomeriggio un vecchio scozzese dai capelli argentati, alquanto agitato ma peraltro distinto, venne da me e mi disse: «Mi pare di capire che lei è amico dello scrittore americano Hunter Thompson». Io risposi di sì. «Dio Santo! Il suo amico Thompson avrebbe dovuto tenere un discorso al Festival questa sera, ma ho appena ricevuto una sua telefonata. Mi ha detto di trovarsi all’aeroporto Kennedy e di essersi imbattuto in un vecchio amico. Ma che c’è di storto in quell’uomo? Come sarebbe a dire che si è imbattuto in un vecchio amico? Per nessuna cosa al mondo potrà essere qui questa sera!». E io gli risposi: «Signore, quando lei chiede a Hunter Thompson di presenziare a una conferenza, deve rendersi conto che non si tratterà in effetti di una conferenza, ma di un avvenimento! Mi sa che lei lo ha appena avuto». La vita di Hunter, come il suo lavoro, del resto, è stata un lungo «sbraito barbarico», per usare una definizione di Whitman, un urlo di derisione - e di libertà alimentata dalle droghe - per tutte le possibili convenzioni, iniziato negli anni Sessanta. In tale impresa Hunter è stato qualcosa di completamente nuovo, di pressoché unico nella nostra storia letteraria. Quando io inclusi un brano tratto da The Hell’s Angels in un’antologia del 1973 intitolata The New Journalism, egli disse di non appartenere a nessun gruppo. Scrisse solo «gonzo». Rimase sui generis. E così è restato. Ciò nonostante egli è stato parte della tradizione secolare della letteratura americana, la tradizione di Mark Twain, Artemus Ward e Petroleum V. Nasby, scrittori comici che segnarono la commedia umana di un nuovo capitolo nella storia del West, vale a dire la storia americana, scrivendo in un modo che in parte era giornalismo e in parte erano memorie personali, mescolate con immagini potenti di selvaggia invenzione, con un linguaggio ancor più selvaggio ispirato dalla bizzarra esuberanza d’una civiltà giovane. Nessuna categorizzazione può definire questa forma, a meno di usare la parola coniata da Hunter Thompson stesso, «gonzo«. Se è così, nel XIX secolo Mark Twain fu il re di tutti gli scrittori «gonzo». E nel XX secolo lo è stato Hunter Thompson, che definirei senz’altro il più grande scrittore comico del secolo in lingua inglese. Tom Wolfe