Varie, 31 gennaio 2006
VACANZE
Clemente Mimun è nato a Roma il 9 agosto 1953. «Mio padre era un libico scampato alle persecuzioni contro gli ebrei degli anni Cinquanta, mia mamma era un’ebrea romana capitata a Tunisi per le vacanze».
SCARPE. Ha sempre voluto fare il giornalista: «Ma ho giocato tanto a pallone da bambino: tornavo da scuola, mangiavo in fretta e correvo a Villa Sciarra. Il campetto era proprio di fronte alla clinica Salvator Mundi e più di una volta si passava direttamente da lì, prima di tornare a casa, per farsi riaggiustare. Fino alle 7 di sera erano gran partite di pallone. Io giocavo malissimo, ma avevo fiato e una bella mira. Consumavo un paio di scarpe alla settimana e per casa mia non era una spesa indifferente».
DNA. «La Lazio è moltissimo per me. Mi piaceva perché è una squadra sfortunata, un po’ sconnessa, cui è richiesta molta fatica per ottenere risultati. Ha vissuto tragedie. Vedevo che tribolava e aveva bei colori, il bianco e il celeste, come la bandiera d’Israele. E poi i romanisti sono boriosi, sono maggioranza. Io mi trovo bene in pochi, sono minoranza nel Dna».
RAGAZZE. «Nel ’68 avevo quindici anni. A me piaceva Bertrand Russel, gli epistolari di Einstein. Ero liberale ma già un po’ socialista. I miei amici andavano per manifestazioni o a lezioni di molotov. Io andavo a vedere se c’erano ragazze carine».
RAGAZZE/2. «Renzo Arbore ha raccontato che tra i ragazzi di Bandiera Gialla c’ero anch’io. vero: sentivamo buona musica e conoscevamo tante ragazze».
TELEVISIONE. «Un ricordo tenero risale al ’59 quando ho cominciato a guardare la televisione. In casa non avevamo il denaro per comprarla. Allora tutta la famiglia scendeva al bar, si pigliava un tavolino circolare e si guardava la tv a gettone, in bianco e nero».
OCCASIONI. Quanto al giornalismo, ha cominciato a 17 anni all’agenzia Asca. A trent’anni è arrivato alla Rai: «Ero praticamente disoccupato. Martelli mi stimava per ragioni che non riguardano corti, cortigiani, regni, adulazioni o cose del genere. Mi rivolsi a lui. E lui mi fece entrare in Rai alla prima occasione».
STANZE. «Sono arrivato in Rai nel 1983 proprio al Tg1. Il direttore era Albino Longhi. Si avvertiva che si lavorava nello strumento d’informazione più importante d’Italia. Si entrava per esempio con molto rispetto nella stanza del direttore».
GUERRE. «Il Tg5 è stato un’avventura splendida vissuta con tre amici: Carelli Mentana e Sposini. Avevamo mandato pieno, fiducia totale, grande budget. Contava una cosa sola: il risultato. Due anni dopo sono stato chiamato al Tg2: ereditato dopo il crollo della prima Repubblica, viveva una crisi d’identità e aveva antiche faide mai risolte. stata una guerra giorno dopo giorno, gente se ne è andata e gente è arrivata prima che si formasse un gruppo che accettasse di percorrere una strada nuova, la mia. Abbiamo inventato il Tg delle 20.30, orario che non era sfruttato, abbiamo inventato il giornale-rotocalco: costume, salute, motori... Ci siamo presi belle soddisfazioni».
PROGETTI. «Non ho mai fatto progetti su che cosa dovevo diventare. Ho pensato al Tg1 dopo tre o quattro anni di direzione del Tg2 perchè mi sono reso conto che ero diventato sufficientemente esperto e preparato per gestire uno strumento così importante».
PILLOLE. La sua filosofia è compresa in tre pillole: 1) Mai fare le interviste al citofono; 2) Mai rivolgere alla vittima di una tragedia familiare la domanda: «Ma lei cosa prova?»; 3) Mai dimenticare che siamo una squadra e che il nostro vero editore è il pubblico.
LINGUAGGI. «Ci tiene che il linguaggio giornalistico sia molto cinematografico. Come il suo tiggì, che può piacere oppure no per il suo gusto di raccontare spigliatamente la società, ma comunque nella pigrizia generale spicca come ”linguaggio” assai riconoscibile» (Mario Ajello).
OUTING. «Io sono disposto a fare outing se lo fanno tutti. Tutti quanti, insieme, contemporaneamente, diciamo per chi votiamo, quali azioni abbiamo, per quale squadra tifiamo».
PROVE. Si ritiene imparziale? «Nessuno è perfetto, ma ci provo ogni giorno».