Tony Damascelli il Giornale, 18/02/2005, 18 febbraio 2005
La Sùmia divina che irretiva il pallone e gli avversari, il Giornale, venerdì 18 febbraio 2005 Enrico Omar stava seduto, spaparanzato, su un divano dell’albergo a Cormano, alla periferia di Milano
La Sùmia divina che irretiva il pallone e gli avversari, il Giornale, venerdì 18 febbraio 2005 Enrico Omar stava seduto, spaparanzato, su un divano dell’albergo a Cormano, alla periferia di Milano. Il cronista giovane e tifoso si avvicinò all’idolo dei tempi belli, domandando ingenuamente: «Scusi, signor Sivori, mi sbaglio o lei ha giocato con Totonno Jiuliano?». Senza scomporsi nella postura Enrico Omar effettuò il tunnel: «Eh, se sbaia, è Juliano che ha sciocàto con me». In quella risposta stavano la carriera e la filosofia di un fuoriclasse vero, quando l’appellativo veniva riservato, non dedicato, ai calciatori che stavano effettivamente fuori da qualunque classifica. Enrique Omar Sivori era un dei tre angeli «da la cara sucia», dalla faccia sporca. Gli altri due portano il nome di Antonio Valentin Angelillo e di Humberto Maschio, con loro l’Argentina vinse la coppa Sudamericana e la cosa abbagliò Umberto e Gianni Agnelli che portarono a Torino, su segnalazione di Renato Cesarini, quel ventunenne mezzo ligure e mezzo argentino, di piede sinistro velenoso e sopraffino, di capa grossa, detto per l’appunto Cabezon. L’anno era il 1957, quando Sivori scoprì Torino, all’aereoporto di Caselle, non sapeva molto della Giuve, di Boniperti e di quello che sarebbe diventata la squadra con lui e un gigante gallese, John Charles. Enrico Omar sapeva palleggiare e massaggiare il pallone, fintava come un pupazzo e caracollando portava l’avversario ad allargare le gambe, un tocco beffardo e infilava il tunnel, la folla italiana non era abituata a quel colpo perfido e spettacolare. E nemmeno ai calzettoni arrotolati sulle caviglie. Sivori così era uso portarli, per provocare l’avversario: «Così ha paura di colpirmi, ho le gambe nude». Se qualcuno osava, e se lo stesso faceva con un compagno di squadra, Omar si vendicava. Aspettando che l’azione se ne andasse altrove, lasciava il segno della sua cabeza o dei suoi tacchetti per poi allontanarsi con le braccia alzate, come un innocente passato lì per caso. Quando le squadre entravano in campo lui rubava il pallone all’arbitro, camminando si avvicinava alla porta e calciava, la palla finiva in rete, i tifosi si scaldavano, a volte il pallone sbatteva sulla traversa o finiva fuori, era il segnale di un pomeriggio amaro. Una notte al Bernabeu, tra Real Madrid e Juventus, il difensore spagnolo Pachin finì lungo per terra e poi trasportato fuori in barella. Aveva sfidato Sivori: «Hombre, te falta la pluma por parecer un indio», insomma «con la piuma saresti un indiano». Omar rispose con una cabezonata delle sue, centrando la fronte di Pachin. Non era amato da nessuno, fuori da Torino ovviamente e anche in casa Juventus non trovava le carezze di Boniperti, che vedeva il proprio sole presso gli Agnelli oscurato da quel sudamericano arrogante. E anche da Charles. Dopo una partita persa dalla Juventus, nello spogliatoio del Comunale l’aria era pesante, John stava seduto, rigato dal sudore, suonato dalla fatica e dalla sconfitta. Sivori continuava a passargli davanti: «E bravo questo galèse, è venuto dall’isola per insegnarci el futbol, e bravo el galèse». Al quarto passaggio davanti alla panca, John, restando seduto, afferrò Sivori per il collo della maglietta: «Tu non dire più John bravo». Sivori capì che il galèse non andava stimolato oltre. Non era gradito agli arbitri, furono trentatre le giornate di squalifica accumulate a fine carriera; Concetto Lo Bello lo mise sull’attenti allo stadio di Firenze, Sivori fu costretto in quella posizione da recluta per mezzo minuto, l’arbitro siculo con il baffo che brillava, gli spiegava il regolamento. La Juventus venne a San Siro una domenica di autunno profondo, l’area di rigore fredda dello stadio, quella senza luce, alla destra della tribuna centrale, era protetta da una coperta di chili di segatura. I tifosi della Vecchia annusarono l’aria, sapeva di funghi. «Terreno ideale per la sùmia», strillò uno che se ne intendeva. La sùmia, la scimmia, nel senso dell’acrobata con il pallone, era appunto Sivori che propose una partita spettacolare nella segatura del circo di San Siro. Quando alla Juventus spuntò Heriberto Herrera furono dolori. Il ginnasiarca, così lo chiamò Brera, aveva idee particolari sugli allenamenti, era il filosofo del «movimiento», ordinava ai suoi di arrivare allo stadio a piedi, evitando l’uso dell’auto che, piccolo dettaglio, era il marchio dell’azienda di casa. Sivori non digeriva che un paraguagio potesse spiegargli il football. Prese a giocare controvoglia, il Napoli gli faceva la corte, ”Sport Sud”, periodico partenopeo, strillò a nove colonne: «Sivori al Napoli». La prima estate lo scoop non si realizzò. ”Sport Sud” rititolò l’anno successivo: negativo ancora. Al terzo tentativo la Juventus cedette e ”Sport Sud” fieramente urlò: «Sivori al Napoli, stavolta è vero!». Insieme con Josè Altafini, il Cabezon regalò altri numeri da favola, a Napoli venne creata la pizza alla Sivori, aveva la mozzarella che tracimava dai bordi, come i calzettoni arrotolati di Enrico Omar. Vinse tre scudetti a Torino, segnando 134 reti, conquistò un Pallone d’oro, si aggiudicò la classifica dei cannonieri, indossò anche la maglia azzurra della nazionale come oriundo, insieme con Altafini, Maschio, Sormani, Angelillo, ma al mondiale cileno del 1962 fu la farsa: «Due giornalisti (Brera e Zanetti, ndr) decisero le formazioni, David e io stavamo nella stanza a fianco di quella dei dirigenti Spadaccini e Mazza, mi fecero fuori insieme a Rivera e Maldini». Le sue origini liguri lo favorirono in tempi abbastanza fumosi. Aveva il terrore dell’aereo, preferiva andare per bastimenti e treni. Fece un’apparizione anche nel film Il presidente del Borgorosso Football club, interpretato da Alberto Sordi. Si era poi dedicato alla televisione, come opinionista acuto e mai ovvio. Alla Juventus era tornato come consulente per il mercato sudamericano. La malattia lo aveva prima sorpreso, poi ferito, infine spento. Le morti di Gianni e Umberto Agnelli avevano strappato, lentamente, le ultime pagine del suo diario. Ha finito la sua esistenza in Argentina. A San Nicolas era nato il giorno due di ottobre del Trentacinque. A me non è mai sembrato vecchio, Enrico Omar Sivori. Da quel pomeriggio, a Cormano, sul divano di un albergo qualunque. Tony Damascelli