Gabriele Romagnoli la Repubblica, 30/01/2005, 30 gennaio 2005
C’è molto più rigore che caso nell’estrema punizione, la Repubblica, domenica 30 gennaio 2005 La storia non si fa con i «se», ma se Arrigo Sacchi avesse portato con sé ai Mondiali del ’94 il professor Ronald Ranvaud, l’Italia li avrebbe (probabilmente) vinti
C’è molto più rigore che caso nell’estrema punizione, la Repubblica, domenica 30 gennaio 2005
La storia non si fa con i «se», ma se Arrigo Sacchi avesse portato con sé ai Mondiali del ’94 il professor Ronald Ranvaud, l’Italia li avrebbe (probabilmente) vinti. Adios al clichè «lotteria dei rigori». Come disse a Ranvaud un giovane centravanti brasileiro: «Certo, ci vuole fortuna, ma ho notato che più mi alleno e più sono fortunato». Questa è la storia di una quadriennale ricerca, in cui la scienza è stata portata a 11 metri da una porta per misurare sguardi e riflessi, un milione di esecuzioni sono state catalogate, un migliaio vagliate millisecondo per millisecondo, sono stati ascoltati tiratori, portieri e allenatori. Alla fine è, anche, l’esito (segnato) di un duello tra il caso e la logica, la demistificazione del fatalismo per cui «Ho tirato dove mi veniva», «Mi son buttato dove mi sentivo» e, quindi, «Era destino». una spiegazione, va da sé rigorosa, per (quasi) tutto. Esiste una fase oscura in ogni percorso e un punto di non ritorno per qualsiasi scelta, è possibile crescere, giungendo alla relativa perfezione. A questo punto, se il migliore dei tiratori possibili va contro il migliore dei portieri possibili, ossia una «forza irresistibile» incontra un «ostacolo insormontabile», chi vince? La risposta arriverà, ma non saltate alla conclusione, occorre prendere la rincorsa, insieme con Totti e Palermo, Mihajlovic e, inesorabilmente, Roberto Baggio.
In principio, la fisica.
L’uomo che studia i rigori è nato a Firenze e si è laureato in fisica a Oxford. Poi, dottorato negli Usa e ricerche all’Istituto Max Planck di Grenoble. Specializzato in campi magnetici intensi, ha finito per essere calamitato da quelli di calcio e per scovare l’intensità nel momento del rigore. Docente di fisiologia e biofisica all’università di San Paolo del Brasile, da quattro anni lo studia come fenomeno dell’attenzione. Valuta l’influenza dello stress, la percezione visuale del tiratore, la sua soglia di non ritorno, oltre la quale se cambia strategia zappa (Costacurta alla finale intercontinentale di Tokyo). Ha effettuato alcune curiose scoperte. Due su tutte. La prima: l’esistenza della macchia cieca per il rigorista. Volgarizzando: ognuno di noi ha un occhio dominante, poniamo il sinistro. Prendiamo un rigorista con quella condizione. Mettiamo che sia del tipo a ciclo chiuso, ossia di quelli che aspettano la mossa del portiere per mettere la palla dall’altro lato. Facciamolo correre verso il dischetto fissando il portiere, che s’inclina verso il palo alla sua destra. Il tiratore mira dall’altra parte ma, a due metri dalla palla, il palo sinistro scompare dalla sua vista, «risucchiato» nella regione in cui il nervo ottico esce dal globo oculare. Il tiratore non se ne avvede, ma ha perso un punto di riferimento e ha più possibilità di sbagliare. Per evitarlo occorrerebbe verificare l’occhio dominante dei rigoristi e reagire di conseguenza. Qualcuno l’ha mai fatto? No. Perché? Questa è la seconda scoperta del professor Ranvaud: nessuno (o quasi) prepara il rigore. Gli allenatori trascurano, gli attaccanti sono troppo presi da spot e vallette. Gli unici a provarci sono i portieri, infatti la percentuale di rigori parati sta aumentando. Di poco, perché essendo una punizione (massima) è concepita in modo da favorirne l’efficacia.
Ogni giorno, l’allenamento.
Dalle interviste fatte a centinaia di rigoristi è risultato che non uno sa in quali zone i portieri sono più vulnerabili e che rapporto esiste tra velocità e precisione. I rigori rappresentano, nelle statistiche di Ranvaud, circa il 15 per cento dei gol segnati, decidono finali che spostano patrimoni e creano miti, eppure l’allenamento specifico è minimo. Nel momento della verità tutta la strategia di un allenatore pagato milioni per le sue scelte consiste nell’avvicinarsi a un capitano stanco e chiedergli: «Te la senti?». Quello, incapace di verità e presunta viltà, trotta nell’area piccola e tira «come gli viene». Poi una città intera resta con la memoria sfregiata da una vangata del pur coraggioso Graziani. Quale rimedio? Come disse il giovane carioca: allenarsi di più. Ranvaud ha metodi specifici. Due su tutti: uno per i tiratori, l’altro per i portieri. Il primo parte dal principio per cui il rigore non è un gesto d’artista, ma da artigiano. Va provato e riprovato: cento volte alla fine di ogni seduta, dichiarando dove si tirerà. Niente finte, ripensamenti, improvvisazioni. Una videocamera per misurare la velocità e rapportarla alla precisione, innescando le traiettorie ideali, da cui non deviare mai. Per i portieri, altra corvée: cinquanta tiri a destra e cinquanta a sinistra, dichiarati. Scopo del gioco: quando in partita l’attaccante prenderà la rincorsa, il cervello del portiere avrà registrato inconsciamente i movimenti visti cento volte di uno che tira a destra o a sinistra e darà al corpo il suggerimento opportuno. Altroché la suggestione para-normale: «Mi sono buttato dove mi sentivo».
Quel pomeriggio, Baggio.
Un po’ di ortottica e tanta pratica posson bastare? La risposta di Ranvaud è una sfida (che ha attirato l’interesse di alcuni club, tra cui il Liverpool): «Datemi una squadra per un mese prima di un torneo. Se va ai rigori contro un’altra che non ha avuto la stessa preparazione, vince». E qui arriviamo a Usa ’94, Italia-Brasile: la schioppettata al cielo di Baggio, le lacrime di Baresi e, secondo la fisiologia del rigore, gli errori di Sacchi. Disse poi Baggio: «Non sentivo più le gambe». E Baresi rientrava dopo un’ operazione al menisco, non tirava da due anni, avendo sbagliato l’ultimo e decisivo in finale di coppa Italia contro la Juventus. Sacchi li mise nei punti chiave della sequenza: primo e ultimo. Dove andrebbero, dati alla mano, non solo i più precisi (e Baresi non lo era), ma quelli in migliori condizioni fisiche (nessuno dei due). Bastano pochi secondi per valutare l’acido lattico, nessuno lo fa. Baggio era sotto stress da settimane, stanco e imballato. Dagli studi di Ranvaud l’ultimo tiratore dev’essere un cinico, una iena. Non esattamente il Codino. Se proprio doveva tirare (avesse sbagliato un altro per lui che avrebbero detto di Sacchi?) allora per secondo, nel momento più rimediabile. Fuori Baresi, la sequenza slitta. Ma chi mettere nei punti cardine, primo e ultimo? La soluzione Ranvaud è questa: i più freschi. Quindi? Alla fine Evani, entrato da poco (che infatti segnò, ma per terzo). E per primo? Pagliuca. Motivazione: se lo alleni, un portiere è perfetto, sa più degli altri sull’avversario, lo mortifica, segna e va in porta con due mosse, scacco matto. Tutto è facile, dopo. Ma davvero anche il rigore è una scienza prevedibile? E se un tizio, da vaghezza punto, dichiara (e poi esegue): «Mò je faccio er cucchiaio?».
All’improvviso, il cucchiaio.
Di tutti i modi in cui battere un rigore il cucchiaio (palla colpita sotto e spedita al centro) è il più irrituale. Totti-gol contro l’Olanda nella semifinale degli Europei 2000 è l’ esempio che tutti ricordano (il suo «negativo» è Totti contro il Lecce, che imbocca l’immobile portiere Sicignano). In apparenza il gesto sembra un azzardo assoluto. In realtà, mettere la palla in mezzo non è folle come può sembrare. Quando il tiratore supera la soglia di non ritorno i portieri si buttano. Tutti quelli intervistati da Ranvaud l’hanno confermato. Perché, lo ha spiegato un brasiliano: «Dobbiamo mostrare impegno». Con precisione merceologica che sa di cicatrice d’esperienza ha aggiunto: «Altrimenti quei bastardi sulle gradinate ci tirano le pile delle radioline». La sola ragione per cui Sicignano non si buttò è che ci si poteva aspettare da Totti quella possibilità per chiunque altro remota. Anche il più accanito tifoso, benché carico di batterie, avrebbe capito, avesse incassato un tiro angolato, che l’immobilità non significava disinteresse. Dopodiché, il cucchiaio resta un episodio, non un modello.
Infine, la perfezione.
In quei 50 nastri contenenti un milione di esecuzioni esiste quella giudicata perfetta. La partita è Fiorentina-Lazio, tredicesima di ritorno del campionato 1999-2000, poi vinto dai biancazzurri. Al dischetto va per gli ospiti Mihajlovic. Di fronte c’è Toldo. Il serbo lascia partire uno dei suoi missili terra-terra. Il portiere si distende in tutta la sua non comune lunghezza. Botta e tuffo scoccano all’unisono. Le mani di Toldo si protendono verso la palla che schizza con traiettoria angolata. Riesce a sfiorarla con la punta delle dita. Basta per deviarla: fuori. Dov’è la perfezione? Sta nel fatto che la Lazio ottiene, più tardi, un secondo rigore. Dare fiducia allo stesso tiratore è considerato un rischio. la cosidetta «sindrome di Palermo», dal nome dello sventurato attaccante argentino che detiene il record negativo: sbagliò tre rigori nella stessa partita. Mihajlovic se ne infischia e riprova. L’esecuzione è identica: missile terra-terra, Toldo che si distende all’unisono nella sua inusuale lunghezza, eppure stavolta non ci arriva: gol. Cos’è cambiato? A occhio nudo sembra che Mihajlovic abbia ripetuto il medesimo gesto. Ma quando il professor Ranvaud scompone la ripresa e ne conta i frammenti scopre che ne manca uno: il secondo rigore dura 17 millisecondi in meno, la palla viaggia a una velocità superiore del 7 per cento. Mihajlovic ha accelerato la battuta, quel tanto che basta perché Toldo non possa arrivarci. Una macchina dotata di strumentazioni? No, un uomo che sa quel che fa. Ha talento, ma con la preparazione ne acquisisce il controllo. In definitiva quel gesto viene a dirci che, nel campo delle intense situazioni umane, una forza irresistibile, se gestita a dovere, supera un ostacolo apparentemente insormontabile. Benché la storia non si faccia con i «se» occorre aggiungere: se le viene concessa una seconda occasione.
Gabriele Romagnoli