Gianni Mura la Repubblica, 11/02/2005, 11 febbraio 2005
L’utopia calcistica di Zola è fatta di tecnica e sorriso, la Repubblica, venerdì 11 febbraio 2005 Zola, è contento per Riva? «Sì, molto
L’utopia calcistica di Zola è fatta di tecnica e sorriso, la Repubblica, venerdì 11 febbraio 2005 Zola, è contento per Riva? «Sì, molto. Era uno dei miei idoli, poi l’ho conosciuto bene ai Mondiali del ’94. Siamo diventati amici. Giusto, anche se tardivo, quello che il Cagliari e la Sardegna hanno deciso per lui. Gigi è più sardo di tanti sardi, ha capito subito la Sardegna. Se posso dare una mano alla mia terra io la do, come lui l’ha sempre data. Ma non era la sua terra, non era tenuto. Questo dobbiamo ricordarcelo, e dirgli grazie». S’aspettava una passerella anche lei, con la nazionale? «Guardi che io gioco ancora, e non ho intenzione di smettere, anche se vado per i 39. Sa come si dice: se pensi di essere vecchio, sei vecchio. Se pensi di poterti ammalare, ti ammali. Io sono rimasto il ragazzino di Oliena, quello a cui la maglia arrivava sulle ginocchia». Il tamburino sardo, giusto? «Tamburino sardo non m’è mai piaciuto. Sardo va bene, tamburino no. Sono già piccolo di mio, i diminutivi non li digerisco. Sa quale fu la prima frase di Maradona, quando arrivai al Napoli? Finalmente ce n’è uno più basso di me». Cosa significa essere rimasto il ragazzino, che pure è un diminutivo, di Oliena? «Privilegiare il divertimento. Io sto divertendomi nel Cagliari come mi divertivo nel Chelsea. E penso che la gente apprezzi questa mia allegria. Corro come un ventenne, non lo dico io ma lo dicono i test atletici che facciamo. Cerco di far vedere un calcio di fantasia, di tecnica, non credo che la gente vada allo stadio e paghi il biglietto per esaltarsi davanti a un passaggio di cinque metri. Piuttosto, per un lancio di trenta, per una doppia finta con dribbling. Se io penso ai miei idoli, Maradona, Platini, Zico, Bruno Conti, sono tutti giocatori che facevano cantare il pallone. Uno di un altro ruolo che m’è sempre piaciuto è Leo Junior». E adesso chi le piace? «Nel mio ruolo il più bravo è Totti, non gli manca niente, o forse solo un po’ di autocontrollo. Ha tiro, dribbling, visione di gioco, sa prendersi le sue responsabilità, è un grande. Poi dico Cassano, che non conosco di persona, mi baso solo sui movimenti che gli vedo fare e dico che movimenti così in Italia li ha fatti solo Ronaldo. Poi voglio ricordare Maldini, un campione esemplare, mai una parola fuori posto. E mi piace Cafu, ha fatto caso che in campo sorride sempre? così che si dovrebbe giocare». E lo stress? «Lo stress è più di quelli che cercano un lavoro e non lo trovano, o lo trovano e sono sfruttati per poche lire. Questa è la prima risposta. Però lo stress esiste anche per noi, io l’ho provato e credo mi abbia condizionato, soprattutto in nazionale. Poi sono riuscito a vincerlo con lo yoga, le tecniche di respirazione». Adesso c’è un argomento impegnativo: il calcio com’era, com’è e come dovrebbe essere. «Era una festa, un gioco fatto di tecnica, ma intorno agli anni 90 si è imbevuto di tattica e ha trascurato la tecnica. Adesso c’è qualche sintomo di ravvedimento. Penso a Kakà che gioca tra le due linee. Dieci anni fa gli avrebbero detto: o stai di qua o stai di là». successo anche a lei? «Sì, ma alla Nuorese, e poi al Parma. Anche al Chelsea, ma per poco. Gullit mi aveva messo a centrocampo, dicendomi che i difensori inglesi uno col mio fisico se lo mangiavano a colazione. Il centrocampo inglese è un’idea vaga, spesso è scavalcata dai lanci lunghi dei difensori. La prima volta che Gullit mi ha messo di punta ho fatto due gol e punta sono rimasto». Perché a un certo punto s’è messo a ridere? «Perché m’è venuto in mente che a Stamford Bridge ognuno arrivava con la sua macchina, prima della partita. Come alla Nuorese, la mia era una Renault 9 bianca. Dalla serie C in su, in Italia allo stadio si arriva tutti insieme, sul pullman. Ridevo perché mi sembrava di aver fatto tanta strada per ritrovarmi al punto di partenza. Oppure, ridevo perché in Inghilterra ho scoperto che i ritiri non servono a niente, quando un giocatore sa gestirsi. Le cose sono chiarissime, nel rispetto dei ruoli. I tifosi non aggrediscono i giocatori contestandogli la discoteca o il pub, non è compito loro. Per quello c’è l’allenatore. Ai tifosi basta che si dia tutto sul campo. Se si perde, battono ugualmente le mani». Lei che è stato molti anni in Inghilterra, cosa pensa dell’idea di abolire le barriere nei nostri stadi? «Mi piacerebbe, ma temo che non siamo pronti. Tra un po’, forse. Ma io vado a naso, sento che il clima è diverso, c’è troppa tensione. Non so se dipende da chi gestisce il calcio, in alto, o da chi gioca, o da chi guarda, o da chi commenta. Da noi la domenica sera in tivù non si vede il calcio ma l’autopsia del calcio. Attenzione, non voglio fare l’anglofilo a tutti i costi, anzi dico che il calcio italiano è superiore a quello inglese, ma la cultura calcistica no, ma la vivibilità degli stadi no. Si è sempre giocato per vincere, anche da bambini, ma oggi in Italia sono tutti incazzati tranne Cafu. vero che si viaggia su ritmi più elevati, può essere che la vittoria non abbia componenti solo sportive, ma vogliamo parlare del rigore tattico che ha fatto passare in secondo piano le doti individuali? Prendiamo due squadre che applicano un perfetto 4-4-2. lo stallo, è la noia, è il calcio in gabbia. Io sono con quelli che escono dalla gabbia. Io devo esserti superiore nel gioco, non impedirti di giocare, non aspettare il tuo scivolone con una condotta utilitaristica e sorniona. In questo senso la Nuorese si è saldata al Chelsea». Si sente una vittima del 4-4-2? «Vittima è una parola grossa, visto che sto ancora giocando. E sa perché? Perché io, modestamente, so giocare a calcio. E lo so fare in Italia, in Inghilterra e, se occorresse, in Spagna o in Cina». stato difficile scegliere l’Inghilterra? «No, anche perché non avevo altre scelte». Ancelotti dice che non è stato lui a mandarla via. «Tecnicamente ha ragione, ma io so di non avere torto. Nessuno a Parma mi ha detto che era ora che cambiassi aria. Ho annusato il vento e ho cambiato aria». Con quali allenatori ha avuto i migliori rapporti? «Scala e Reja. Ottimi tecnici e ottime persone. Ci sono state discussioni, ma sempre civilissime». Zola, a scrivere di lei si rischia l’agiografia, lo sa? «Sì, e un po’ mi secca. Non credo di essere una mosca bianca. Semmai sono eccezioni quei dieci o venti giocatori con la Ferrari, le veline eccetera». Allora mi dia una mano, mi racconti qualche mascalzonata o cattiveria che ha fatto. «Da bambino sentivo dire che i gatti hanno sette vite. Con gli amici ne ho buttati un po’ giù dal tetto». Alto quanto? «Quanto bastava perché il proverbio risultasse sbagliato, ma non sempre». Altro? «Non studiavo volentieri, avevo in testa solo il pallone. Comunque se sono fatto così è perché così mi ha voluto mio padre. Gli piaceva il calcio, non era giocatore. Rispettare le regole, rispettare gli avversari, quante volte me l’ha detto. No, tornando a una domanda di prima, se c’è una cosa di cui mi sento parzialmente vittima è la scarsa attenzione del calcio italiano verso la Sardegna. Ho fatto una gavetta lunghissima, sono arrivato in A che avevo quasi 24 anni. C’era stata un’offerta del Torino quando ne avevo 13, troppo giovane per muovermi da casa, poi Giovanni Maria Mele detto Zomeddu, il mio primo maestro di calcio, ha provato a segnalarmi all’Atalanta, alla Lazio, alla Sampdoria, al Cagliari, ricevendo sempre la stessa risposta: è troppo piccolo, è troppo gracile, non ci interessa». Vedi gol di testa alla Juve. «Ecco. Io sono un fanatico della preparazione atletica, ma quel gol è figlio dei sogni, che il bambino che mi porto dentro continua a fare. Fino a che ho sogni e voglia di divertire e divertirmi, gioco». E poi? «Poi ho una bella famiglia, avrò più tempo. Andrò a pescare, leggerò molti libri, ascolterò vecchi dischi, suonerò il piano. Mi piacerebbe insegnare calcio ai bambini, compresi quelli piccoli e gracili». vero che ha rifiutato di suonare con Elton John? «Sì, nel ’97 in un suo show. Lui doveva cantare e io suonare il piano. Non ero all’altezza. Finché c’è da strimpellare tra amici Paoli, De Gregori, Guccini, i miei preferiti con Brian Adams, ci sto. Più in là, no». Che tipo era Zomeddu? «Insegnava matematica e fisica, tipo sergente di ferro. Mi ha fatto piangere un sacco di volte, ma sempre a fin di bene. Voleva che crescessi internamente. Se non sai affrontare situazioni così, meglio che torni a vendere gazzose con tuo padre. Così mi diceva. Però mi diceva anche che le mie finte di corpo gli ricordavano quelle di Boskov». E dove l’aveva visto, Boskov? «Non lo so, mai fatto domande. Neanche a Maradona. Lo studiavo quando calciava le punizioni, in silenzio. A volte andavo dietro la porta per capire come poteva ragionare il portiere. Tutte cose che mi sono servite molto». Vogliamo parlare delle amarezze? «Sono legate alla nazionale. Nel ’94 speravo di giocare prima, stavo bene, con la Nigeria appena entro l’arbitro mi butta fuori senza che avessi fatto fallo. Tre turni di squalifica. E l’arbitro radiato pochi mesi dopo perché si vendeva le partite. Comincio a sperare negli Europei del ’96, ma sbaglio il rigore con la Germania, mi assumo tutta la responsabilità dell’eliminazione, che forse non era tutta mia. Giorni nerissimi. I sogni, o si realizzano o si spezzano. E vivere coi loro cocci è difficile. C’è una curiosità, sia a Boston sia a Manchester avevo la maglia numero 21. Quando arrivo al Chelsea, trovo l’armadietto numero 21 e dentro un paio di scarpe della mia misura con scritto 21 sotto la suola. L’armadietto non l’ho mai usato e le scarpe le ho bruciate. Un’altra cattiveria, no?». Gianni Mura