Varie, 31 gennaio 2006
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NAM JUNE PAIK Seul (Corea del Sud) 20 luglio 1932, Miami (Stati Uniti) 29 gennaio 2006. Artista • «Senza di lui, senza Nam June Paik, le polemiche sui video che agitano il mondo dell’arte non ci sarebbero mai state
NAM JUNE PAIK Seul (Corea del Sud) 20 luglio 1932, Miami (Stati Uniti) 29 gennaio 2006. Artista • «Senza di lui, senza Nam June Paik, le polemiche sui video che agitano il mondo dell’arte non ci sarebbero mai state. Fu Nam June Paik a presentare per primo, nel 1963, alla galleria Parnass di Wuppertal (Germania) un’installazione formata da 13 video-monitor. Riempivano lo spazio con immagini ferme e musica elettronica. Fu allora che cominciò a prendere forma e vita la Videoarte (dall’inglese Videoart), termine ormai entrato nell’uso comune per definire un complesso fenomeno di creatività e sperimentazioni espressive collegate con il mezzo televisivo. [...] Era nato a Seul ma aveva studiato composizione musicale e storia dell’arte all’università di Tokio. Gli studi giovanili, la filosofia Zen, sono stati spesso presenti nei suoi interventi, quasi un fondo impalpabile nei primi concerti di musica elettronica segnati dall’influenza della teoria dell’indeterminatezza di John Cage, incontrato nel 1956 a Düsseldorf. E qui nel 1959 Nam June Paik presentò “Omaggio a John Cage”: sei minuti di musica elettronica per tre magnetofoni, un vetro spezzato, un piano rovesciato, alla presenza di Beuys, Gaul, Goetz, Hoem. Fu un passo verso la prima video installazione, verso l’introduzione di immagini elettroniche in movimento nel mondo dell’arte, verso il riconoscimento di Paik come “genio” dei media. Al contempo è stato un vero anello di congiunzione tra gli Stati Uniti e l’Europa anche per i suoi legami con Fluxus, movimento transnazionale, con cui entrò in rapporto nel 1964 dopo aver conosciuto il fondatore, George Maciunas, che lo introdusse nel mondo newyorchese e in un gruppo ondeggiante di artisti: Allan Kaprov, Wolf Vostell, Yoko Ono, Dick Higgins, George Brecht, Joe Jones, Alison Knowles, Ben Vautier, gli italiani Giuseppe Chiari, Sylvano Bussotti, Gian Emilio Simonetti, e poi La Monte Young, Henry Flynt. A New York incontrò Charlotte Moorman, violoncello solista dell´orchestra di Stokowski, con cui avviò una collaborazione andata avanti per trent’anni e che ha generato celebri happening tra cui Opera Sextronique: due piccoli televisori applicati sul seno nudo della musicista (che per questo fu arrestata) mentre suona un violoncello formato da tre monitor che disegnano un corpo femminile. Nel frattempo con l´ingenere Abe inventava e sviluppava un sintetizzatore elettronico per manipolare le immagini elettroniche, suonava insieme a Stockhausen, negli anni ’70 e ’80 collaborava con Laurie Anderson, David Bowie, Merce Cunningham, sperimentava con Beuys la tecnologia satellitare, lavorava a Berlino con l’architetto Renzo Piano. Furono anni ruggenti con Paik al centro dell’attenzione del mondo - alla Biennale di Venezia come a Documenta di Kassel - per i suoi ironici totem elettronici accesi dall’azzurrino degli schermi, per le sue “installazioni globali” che fondono immagini, suoni, televisori, pianoforti, oggetti vari, lampadine, strumenti musicali. Un crocevia di cinema, scultura, arte visiva e musica. Con la consapevolezza che la televisione era ed è invadente e onnipotente nei confronti dell’opinione pubblica, della formazione del gusto e dei desideri, del pensiero politico. La sua è stata davvero arte totale per una critica globale» (“la Repubblica” 31/1/2006). «[...] Inquieto e concentrato come un Einstein orientale, capitava di vederlo camminare con una calza diversa dall’altra mentre seguiva il filo dei suoi pensieri che coniugavano arte, vita, morte sul crinale degli anni duemila. Ma mancavano ancora quarant’anni al secondo millennio, e già l’artista coreano usa, nel 1963, le televisioni per creare opere che registrano realtà alterate a circuito chiuso. Man mano le immagini dello schermo da lui usato, il cui potenziale viene subito intuito dall’artista, si frantumano, si spezzettano, si polverizzano ricreando realtà alternative alla violenza della comunicazione. E le ore scorrono come l’’olio davanti a quegli affreschi mobili, intensi, compositi, fatti di innumerevoli monitor, con immagini isteriche e dolci che seguono sequenze, rumori e suoni ipnotici. Paradossale, ironico e lucidissimo, questo maestro che tradusse impressionismo, cubismo, happening e quotidianità, in un collage catodico, aveva occhi di spregio per il potere e compassione per gli esseri umani. Le sue architetture televisive entrano via via nel mondo dello spirito, come il Buddha che guarda una televisione senza schermo con dentro una candela accesa. Oppure il Buddha che, impassibile nel corso del tempo guarda se stesso alla Tv. Laureatosi in Europa nel 1956 con una tesi teorica su Arnold Schoenberg, nel 1964 incontra George Maciunas e Joseph Beuys ed entra a far parte del movimento Fluxus, che smonta e distrugge le regole date. Nel 1996 viene colpito da un ictus, i suoi movimenti veloci, improvvisi, imprevedibili sono bloccati in un corpo semiparalizzato. “L’importante - aveva detto - è che il cervello funzioni, il resto non mi serve”. [...] questo non gli ha impedito di fare una grande personale al Guggenheim nel 2000 e continuare a lavorare e rinnovarsi. Un giorno, viene ricevuto dal Bill Clinton per un premio e, instabile sulle stampelle, mentre stringe la mano al presidente gli cadono i pantaloni. Come un involontario scherzo fluxus, questo lo riconduce sul cammino del suo personaggio anarchico e geniale, privo di costrizioni e tabù. In Italia aveva fatto una straordinaria installazione alla Biennale di Venezia del 1993, invitato da Achille Bonito Oliva e a Milano aveva lavorato con Gino Di Maggio e Francesco Conz. Velocità, ripetizione, suono sono le costanti delle sue installazioni. L’uomo è sempre al centro dell’attenzione anche quando è in rapporto alla natura. In un video pieno di tenerezza Paik riprende Joseph Beuys che dialoga con un coyote. L’artista tedesco, in questa performance vive in eterno. Da tempo non si parlava più tanto di lui, quasi come se la sua apparizione si fosse bruciata alla velocità dell’immagine. Prima del Grande Fratello, prima del predominio assoluto della televisione sulla vita, prima degli attentati spettacolo, Paik, come il Guy Debord, intuì ed elaborò a tutti i livelli, con l’elettronica e la robotizzazione, l’uso artistico della televisione. [...]» (Manuela Gandini, “La Stampa” 31/1/2006).