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 2005  febbraio 08 Martedì calendario

La Thatcher fu un sentimento, le nude cifre non la spiegano, la Repubblica, martedì 8 febbraio 2005 In una luminosa mattina d’autunno di una quindicina di anni fa, la mia futura moglie mi trovò che camminavo con passo malfermo lungo una strada di Bruxelles, in uno stato di assoluto sbigottimento

La Thatcher fu un sentimento, le nude cifre non la spiegano, la Repubblica, martedì 8 febbraio 2005 In una luminosa mattina d’autunno di una quindicina di anni fa, la mia futura moglie mi trovò che camminavo con passo malfermo lungo una strada di Bruxelles, in uno stato di assoluto sbigottimento. Lei dice che io stessi piangendo, ma non è così. Ricordo però che mi sentivo come se mi avessero ammazzato la tata. Lontano da lì, a Londra, una gang di deputati conservatori crudeli e vigliacchi aveva appena silurato il più grande primo ministro inglese del tempo di pace. Da quel momento in poi la guerra sul significato e l’importanza del suo lascito non si è mai interrotta. Non appena i Tories ebbero scaricato Thatcher, i suoi denigratori iniziarono una battaglia mirante a infangarne il nome e a scrivere nei libri di storia la sua caricatura. Persino nel corso dei suoi stessi mandati - dicevano - era stata un fallimento, e si potrebbe quasi essere tentati di concordare con molto di quello che dicono. Il thatcherismo prima di qualsiasi altra cosa doveva essere una dottrina per migliorare e liberalizzare l’economia, anche se le nude cifre non sono così impressionanti come noi thatcheriani vorremmo che fossero. Negli anni 80 i tassi inglesi di crescita toccarono mediamente il 2,1 per cento, a fronte del 2,3 per cento del periodo 1951-1964, e del 2,6 per cento del periodo compreso tra il 1964 e il 1973. La disoccupazione aumentò vertiginosamente. Anche l’inflazione fu più elevata di quanto ci piaccia ricordare, con una media del 5,8 per cento - persino superiore a quella dei denigrati anni ’70. Si supponeva che Thatcher dovesse essere simile a De Gaulle, in quanto aveva un’idea super-patriottica del suo paese d’origine. La considerazione thatcheriana di un’Inghilterra protagonista del mondo, una nazione con la quale non si scherzava, fu esemplificata dai suoi memorabili istrionismi nella Ue. Colpiva a borsettate gli altri leader europei con una fiera indignazione tutta femminile e provocava vere e proprie estasi di devozione sentimentale nei suoi sostenitori. Al tempo stesso si rese conto che era essenziale allargare al massimo l’influenza inglese coltivando Washington e in particolare le relazioni con Reagan. Ciò nonostante, alla fine del suo mandato, le sue posizioni riguardanti tanto l’Europa quanto l’America apparivano sorpassate e imbarazzanti. Con la fine della Guerra Fredda si trovò ad aggrapparsi a ipotesi che persino gli americani avevano liquidato. Fu inorridita da come Reagan arrivò quasi a vendersi a Reykjavik; si oppose strenuamente all’unificazione della Germania e fu riluttante a procedere con la riduzione degli arsenali, anche quando erano stati pattuiti tra Mosca e Washington, perché questo avrebbe potuto diminuire il ruolo di intermediario dell’Inghilterra. Per quanto riguarda le sue battaglie con Bruxelles, avrebbe potuto trionfare a Fontainebleu, e far ottenere agli inglesi un ribasso, ma alla fine i suoi avversari europei ebbero la meglio, specificatamente il governo italiano di Giulio Andreotti. La più cinica di tutte le notorie azioni di quell’uomo fu sicuramente l’imboscata che egli le tese al summit di Roma del 28 ottobre 1990, che innescò il suo crollo politico. Malgrado ciò, al termine del suo periodo in carica, si poteva affermare che i suoi scettici denigratori da un certo punto di vista avessero avuto ragione. C’era qualcosa di disfattista nella visione del Foreign Office secondo cui l’Inghilterra è costretta da grandi necessità geopolitiche a essere dipendente dall’America e a dover fare compromessi con Bruxelles. Tuttavia, ciò equivaleva a non cogliere il coraggio e la positività del revival thatcheriano. Per tutta la mia infanzia la politica inglese era stata dominata da una facile accettazione del declino. Il nostro peso nel mondo stava scemando e non c’era molto che si potesse fare al riguardo. Thatcher cambiò tutto. Indipendentemente da quello che le statistiche paiono suggerire, lei cambiò decisamente in meglio i presupposti stessi dell’economia inglese, con modalità che è stato difficile per i Labour revocare. Rimise in piedi il settore energetico e le imprese. Emancipò milioni di persone che furono libere di acquistare proprietà e azioni e di prendere parte a una democrazia capitalista. Seppe tenere a bada i sindacati. Vinse una guerra distante migliaia di chilometri, rivendicando il principio della sovranità nazionale. Fu coraggiosa e spesso ebbe ragione. Più di ogni altra cosa, nei ceti più alti della nomenklatura inglese lei seppe cambiare il concetto stesso di quello che voleva dire essere inglesi. Essere inglesi, dopo Thatcher, non significava più essere rassegnati al declino. Lei cambiò la consapevolezza di quello che la gente poteva fare e conseguire nella propria vita, di quello che il loro paese poteva fare e conseguire. Il suo lascito è il modo in cui è cambiato il nostro sentire. Boris Johnson