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 2005  febbraio 10 Giovedì calendario

Vento dall’Iraq: a Riad c’è chi parla di riforme, L’espresso, 10 febbraio 2005 I grandi temi della politica mediorientale sono sul tappeto: le recenti elezioni in Iraq, gli spiragli di pace nel Vicino Oriente, la visione americana e le riforme politiche del mondo arabo, a cominciare da quelle in Arabia Saudita

Vento dall’Iraq: a Riad c’è chi parla di riforme, L’espresso, 10 febbraio 2005 I grandi temi della politica mediorientale sono sul tappeto: le recenti elezioni in Iraq, gli spiragli di pace nel Vicino Oriente, la visione americana e le riforme politiche del mondo arabo, a cominciare da quelle in Arabia Saudita. Ne parla in questa intervista esclusiva con ”L’espresso” il principe saudita al-Walid bin Talal, non più soltanto investitore e uomo d’affari plurimiliardario, il quarto più ricco uomo al mondo secondo il settimanale americano ”Forbes”, ma anche personalità sempre più di rilievo nello scacchiere politico interno e internazionale. Per la prima volta al-Walid rivela il suo pensiero politico, i suoi sogni e le grandi sfide che il suo paese, l’Arabia Saudita, si appresta ad affrontare in questa fase così cruciale per la stabilità del Medio Oriente. Il presidente George Bush ha confermato il 20 gennaio la volontà americana di sostenere le forze democratiche nel mondo. Ha inoltre legato il successo delle relazioni bilaterali americane alle performance democratiche dei governi. Così Bush aiuterà i riformisti del mondo arabo? «Nessuno ha dubbi sulla necessità di diffondere libertà e diritti umani. Eppure, è molto dannoso avere una posizione valida per tutti, dal momento che ogni paese ha le sue proprie caratteristiche. Il discorso aggressivo di Bush preoccupa molti nel mondo arabo. Anche se sono sicuro che quelle parole erano rivolte in particolare alla Corea del Nord, alla Siria e all’Iran, e non direttamente all’Arabia Saudita. Non sarei nemmeno così certo che l’equazione sviluppo delle riforme democratiche uguale successo delle sue relazioni bilaterali con gli Stati Uniti sia così convincente. Basta pensare al Pakistan di qualche anno fa e alle sue ottime relazioni con le amministrazioni americane». Non pensa che la politica americana sia più determinata di allora a premere in direzione delle riforme politiche? «Ritengo che l’essenza vera di questo discorso sia racchiusa nel legame che il presidente americano ha affermato esserci tra la libertà nel mondo e il suo impatto sulla sicurezza interna americana. Quest’amministrazione ha però un problema di immagine, e non solo nei paesi arabi. Tutti hanno capito che si tratta dell’unica superpotenza mondiale, ma questa posizione, che non sarà certo eterna, dovrebbe essere usata per migliorare il sistema di relazioni internazionale. Non per mostrare i muscoli». Ma tutto ciò aiuta o no il processo di riforme nei paesi arabi? «Senza dubbio alcuno accelera il moto delle riforme. Quanto è accaduto in Iraq, malgrado si trattasse di un regime folle e bellicoso, è ben chiaro agli occhi del mondo. E, in particolare, a quelli delle leadership arabe. Questo non significa che l’ingerenza americana nei loro affari interni sia imminente. Sono inoltre leadership meno immature (di quella di Saddam, ndr) nel giudicare il potere e la forza americane». Le elezioni in Iraq hanno evidenziato la vittoria del blocco politico sciita. L’Arabia Saudita si sentirà a suo agio con il nuovo vicino sciita? «Prima della riconciliazione con l’Iran (preparata dall’ex-presidente Rafsanjani e realizzata da Muhammad Khatami alla fine degli anni ’90, ndr), l’Arabia Saudita nutriva profonde preoccupazioni verso il potere sciita iraniano e sulle sue possibili influenze regionali. Adesso non è più il caso. Il mio paese ha dimostrato di volere cooperare con i suoi vicini indipendentemente dalle loro tendenze confessionali. Può convivere con qualsiasi regime ai suoi confini, purché scelto dalla propria gente. Che l’Iraq sia governato da sunniti o sciiti poco importa. Quello che conta è che chiunque lo governi ne garantisca la stabilità». Il futuro modello politico iracheno si avvicinerà a quello sperimentato in Libano? «Spero che il modello iracheno attuale non si ripeta in nessun’altra parte del mondo. Lì non esiste altro che la guerra civile, il caos, l’anarchia e la violenza. Una volta stabilizzato il Paese, potremo comparare il modello iracheno con altri o verificare se costituirà o no un modello per gli Stati della regione». Si aprono nuove prospettive di pace tra palestinesi e israeliani. In che modo i grandi investitori internazionali come lei potranno sostenere il processo di pace? «Lavoro esclusivamente sul fronte palestinese al fine di alleggerirne le pressioni socio-economiche e togliere terreno agli estremisti. I miei progetti di investimento e di beneficenza possono aiutare l’Autorità Palestinese e il suo presidente Abu Mazen a evitare l’esplosione della violenza. Questo faciliterà anche il negoziato con Israele, adesso che Sharon parla di pace».  disposto anche ad aiutare Israele dandogli un segnale forte verso la pace? «Israele non ha bisogno di aiuto. Se dimostra di essere veramente determinato a pervenire alla pace con i palestinesi e a consolidarla, allora la regione ne trarrà beneficio. Tengo molto perché questo avvenga per aiutare il riavvicinamento reciproco. Non investo in Israele, ma ciò non toglie che molti dei miei investimenti internazionali siano in partnership con personalità dell’economia e della finanza ebree. E ne sono molto orgoglioso». Una generazione di giovani leader sta assumendo posizioni governative in alcuni paesi arabi. Pensa che lo stesso avverrà in Arabia Saudita? «Non c’è bisogno di una più giovane generazione dal momento che il governo saudita è profondamente impegnato a realizzare le riforme. di alcuni giorni fa la decisione di aumentare da 120 a 150 il numero dei membri del Consiglio consultivo e di accrescerne le competenze, che includeranno la supervisione del bilancio dello Stato e un ruolo più incisivo nell’amministrazione degli affari del paese. Ci muoviamo molto lentamente, ma la strada intrapresa è senza ritorno. Come riformista voglio che le riforme siano realizzate, ma all’interno del sistema. Alcuni tabù sono già caduti: ad esempio il riconoscimento della povertà; le elezioni, che oggi sono comunali e che nell’arco dei prossimi quattro, otto anni saranno legislative; i diritti delle donne. Fatti impensabili soltanto alcuni anni fa e ora all’ordine del giorno. Sono personalmente e concretamente impegnato a riconoscere alla donna il ruolo e la forza che le competono nella nostra società. Sono convinto che altri seguiranno l’esempio». In alcuni paesi gli uomini d’affari scalano i vertici della politica. In Italia Silvio Berlusconi, in Thailandia Thaksin Shinawatra, in Libano Rafiq Hariri. Potrebbe accadere anche a lei? «Nei paesi da lei menzionati si è o dentro o fuori la politica. E, se si è fuori, si è privi di ogni influenza. Nel mio caso, il vero potere rimane nelle mani della famiglia reale. Quindi non ho bisogno di entrare in politica: anzi, entrarvi potrebbe danneggiare la mia azione. Fare parte del governo significa seguirne la linea e, se contrario, essere esposto a dimissioni volontarie o forzate. Nella mia posizione, ho doveri in quanto membro della famiglia reale e agisco sotto il suo ombrello, il che significa godere di immunità. Sostengo le riforme e non sono all’opposizione, dal momento che mi muovo all’interno del sistema. Il mio è un caso unico e la mia posizione è spettacolare. Non intendo cambiarla per nulla al mondo». Ma come anticipatore di tendenze, non teme una reazione da parte dei conservatori e degli ultra-conservatori? «C’è chi mi ha già giudicato come un estremista non osservante della religione. Al contrario, io sono conservatore da un punto di vista religioso e liberale da quello sociale. Ritengo che l’emancipazione della donna che sto promuovendo sia un suo diritto fondamentale e negarglielo è come agire contro l’umanità». Continuiamo a parlare di diritti delle donne mentre si nega loro il diritto al voto oltre a forme più basilari di emancipazione. Non le sembra almeno contraddittorio? «Sono d’accordo con lei, ma da qualche parte bisogna pure cominciare. E io lo faccio. Oggi in Arabia Saudita non è più sostenibile la tutela maschile delle donne giustificata in base alla legge islamica. Anche perché in altri paesi musulmani, dall’Indonesia alla Tunisia, le donne hanno diritti che i sauditi ancora negano loro». Ma quanti la seguiranno su questa strada? «Vedremo. Io ritengo che la gran parte dei sauditi sia d’accordo con me. E le reazioni già si vedono. Ad esempio, quelli che si autodefiniscono shaykh, personalità religiose, mi hanno inviato lettere di accuse. Ma io non intendo incontrarli giacché rispondo soltanto al governo e non alla comunità religiosa. Loro hanno il diritto di protestare, ma non hanno alcun diritto di impedirmi di agire. E il governo saudita mi sostiene. Il fatto che abbia assunto una donna pilota nella mia flotta aerea, è esattamente per dimostrare agli uomini sauditi che le negano il permesso di guidare l’automobile, che quella stessa donna può guardarli dall’alto della sua cabina di pilotaggio. Ha un alto significato simbolico». Cosa pensa l’establishment religioso ufficiale delle sue proposte progressiste? «Le autorità religiose, quelli che definisco i veri ulama (studiosi delle scienze religiose, ndr) sono moderati. Non come me, ma non hanno nulla da rimproverarmi». Se non lo fanno, è perchè sono esse stesse personalità governative... «Non lo fanno perché mi muovo nel pieno rispetto dell’Islam». Restiamo alle riforme politiche. L’allargamento del Consiglio consultivo, nucleo del futuro Parlamento, è comunque basato sulla nomina governativa, non sull’elezione dei suoi membri. «L’elezione avverrà. Devo dire che anch’io sono contrario a promuoverle adesso. La popolazione saudita non sa che cosa siano. La mia idea, trasmessa al principe ereditario Abdullah e al ministro della Difesa Sultan, è stata quella di far sì che la gente cominci a conoscere il processo elettorale dal livello municipale. E abbiamo visto quanta poca partecipazione i sauditi abbiano mostrato nei confronti di questo processo! Un conto è avere una bassa affluenza alle urne per le elezioni comunali, un altro è averla a livello legislativo». Pensa davvero che questa scarsa partecipazione sia dovuta alla poca conoscenza dei meccanismi elettorali. Non è piuttosto apatia politica? « dovuta a entrambe le cose». Ma allora la tendenza è più preoccupante... «Quando un Paese non ha avuto elezioni per oltre 70 anni, è difficile imporglierle dalla sera alla mattina». Questa elezione può costituire un preludio per la formazione di partiti politici? «La questione adesso non si pone nemmeno, ma è anche vero che queste elezioni registreranno inevitabilmente raggruppamenti di persone e di idee che getteranno i semi di futuri partiti politici. Bisogna essere pragmatici in merito». Una delle questioni cruciali rimane la successione al trono. L’età matura dei possibili successori a Abdullah fa temere una serie di brevi interregni. Cosa succederà allora? «Per la nomina a re, il consenso ultimo da parte dei membri della famiglia reale ha sempre costituito la linea rossa da non oltrepassare. L’attuale Stato saudita è il terzo che si è formato dal XVIII secolo. Il primo Stato fu spazzato via per volontà ottomana e sotto i colpi dell’esercito di Ibrahim Pasha, figlio del viceré d’Egitto Muhammad Ali. Il secondo crollò a causa delle lotte intestine alla dinastia saudita, e di questo la famiglia reale conserva tuttora vivida memoria. Il terzo Stato, fondato dal re Abdul-Aziz, si è consolidato nell’arco di oltre cent’anni e non certo senza turbolenze interne ed esterne. Dunque, quel consenso è dettato da una questione di sopravvivenza e di destino, e sarà pacato, diretto e rapido. Non vedo alcun problema in questa direzione». Pensa che l’Arabia Saudita sia oggi più matura di quanto lo fosse negli anni ’50 e ’60 per passare a una monarchia costituzionale? «Una volta che il Consiglio consultivo acquisirà più poteri, si avrà di fatto una monarchia costituzionale. soltanto una questione di tempo». Dopo l’11 settembre un suo assegno alle vittime le fu restituito. Lei però ha continuato sulla via del miglioramento delle relazioni saudo-americane. «Le ferite dell’11 settembre sono ancora molto profonde ed è l’intera infrastruttura umana dei due paesi a esserne stata coinvolta. Il processo di riconciliazione prenderà anni e non sarà di facile soluzione. La mia azione, come quella di altri sauditi, intende accorciare le distanze tra le due società. Per questo ho creato centri di studi americani nell’Università Americana del Cairo e in quella di Beirut, mentre in Inghilterra e negli Stati Uniti l’obiettivo è di approfondire e di diffondere la conoscenza accademica del mondo arabo, islamico e dell’Arabia Saudita». E sul fronte dei media? «La strategia è quella di far conoscere chi siamo realmente. Ci sono sauditi cattivi, ma questo non significa che lo siamo tutti. Uso il mio alto profilo mediatico per umanizzare la nostra immagine nei media occidentali. Altri seguiranno il mio esempio». Si tratta di un mero miglioramento di facciata o di un cambiamento reale in direzione di una società saudita più aperta e tollerante? «Sono d’accordo nel riconoscere le pecche del passato nei programmi di studio o nell’aperto sciovinismo confessionale di certi testi religiosi. Oggi i testi didattici cominciano a cambiare e nelle moschee i predicatori non incitano più alla violenza contro cristiani ed ebrei, pena la loro esclusione. Se si considera il grande numero di moschee presenti sul territorio saudita, riprenderne il controllo significa influenzare la maggioranza della popolazione e avviare così il cambiamento. Le assicuro che questo sta accadendo». Può raccontarci qualcosa sulla televisione che ha deciso di lanciare? «Penso a un canale esclusivamente religioso, che rifletterà la linea moderata dell’Islam a cui aderisce la gran parte dei sauditi. Trasmetterà programmi in arabo, dal momento che ho bisogno di comunicare alla mia gente e al mondo arabo qual è il vero Islam. Il canale trasmetterà dal Kuwait o da Dubai, dove è più facile fare arrivare le autorità religiose che animeranno le trasmissioni. Non sarà certamente un canale a scopo di lucro. un regalo che faccio al mio Paese, e le trasmissioni saranno diffuse anche in Europa e in America. E questo perché sono ”islamicamente” conservatore». Antonella Caruso