Masolino D’Amico La Stampa 29/01/2005, 29 gennaio 2005
Cesare (o Cesarino) Garboli aveva tutti i numeri per essere adorato, La Stampa sabato 29 gennaio 2005 Settentaquattro anni sono pochi per morire, specialmente oggi, ma quando l’anno scorso mi resi conto dai coccodrilli che Cesare Garboli era nato nel 1929 stentai a crederlo
Cesare (o Cesarino) Garboli aveva tutti i numeri per essere adorato, La Stampa sabato 29 gennaio 2005 Settentaquattro anni sono pochi per morire, specialmente oggi, ma quando l’anno scorso mi resi conto dai coccodrilli che Cesare Garboli era nato nel 1929 stentai a crederlo. Non avevo mai fatto calcoli sulla sua età, ma non mi era ancora venuto in mente di non chiamarlo più Cesarino. Cesarino era rimasto per noi D’Amico fin da quando lo avevamo conosciuto nei primi anni 1950, in veste di enfant prodige chiamato a collaborare all’Enciclopedia dello Spettacolo. L’immane impresa aveva un’origine semifamiliare in quanto fondata da mio nonno Silvio e mandata avanti da mio padre e mio zio, che a un certo punto diressero rispettivamente le sezioni musica e teatro. Non so chi vi introducesse questo brillantissimo redattore; di lui si vociferava che fosse l’allievo prediletto di Natalino Sapegno, e infatti lo ritrovai in veste di esaminatore quando sostenni l’esame di letteratura italiana all’università. Sapegno gli teneva in caldo un posto di assistente, senonché Cesare non si decideva non dico a fare domanda, ma nemmeno a laurearsi. Il suo procrastinare quel momento fatidico sembrava ricerca di perfezionismo ovvero paralisi davanti alla necessità di compilare una tesi all’altezza delle sue ambizioni; sotto però c’era anche dell’altro. In primo luogo, allora non lo sapevamo, Cesare - a differenza praticamente di tutti i giovani aspiranti intellettuali che si conoscevano - poteva permettersi di non aspirare a un posto fisso, in quanto ricco di famiglia, con un padre noto costruttore e splendide abitazioni in Versilia. In secondo luogo, e questa sarebbe rimasta una costante della sua esistenza, non aveva alcuna fretta di diventare adulto. Unico figlio maschio, era venuto al mondo dopo quattro (o erano cinque?) sorelle che lo avevano tirato su coccolandolo e pendendo dalle sue labbra, situazione in cui si era evidentemente trovato così bene che in seguito sarebbe riuscito a perpetuarla: non si sposò mai, in compenso si legò nel corso della vita a una successione di donne più anziane e adoranti, nessuna delle quali poté mai vantarsi di averlo in esclusiva. Intendiamoci: i numeri per essere adorato Cesare o Cesarino li aveva tutti. Tanto per cominciare, era molto bello, e in modo non convenzionale - alto, magro, elegante in modo vagamente trasandato, naso affilato, scuri occhi penetranti, mani delicate. Poi, era intelligente almeno quanto era colto, curioso degli altri, allegro e spiritoso senza essere chiassoso. Era, anche, misterioso. Sembrava sempre di passaggio, non si sapeva mai dove abitasse davvero (la vera casa era lontana, ai piedi delle Apuane). Naturalmente, era anche narcisista e posatore. Una volta capitò da noi a Castiglioncello mentre Paolo Panelli girava uno dei suoi filmetti, e si provò per gioco un paio di baffi finti. Vedendolo così, mia madre gli disse che assomigliava a R. L. Stevenson. Lui fece finta di non sentire, ma un paio di mesi dopo lo incontrammo con dei baffi identici a quelli, che si era fatto prontamente crescere e dei quali peraltro si stancò presto. Sì, posava, ma non era esibizionista. Non aveva mai avuto bisogno di prodigarsi per attirare l’attenzione; seduceva naturalmente, senza sforzi. E poi era appassionato, sinceramente appassionato, di tutte le arti: letteratura, soprattutto classica, pittura, musica, cinema, teatro, gli scacchi. Quando lo frequentavo da ragazzo - mi diede anche qualche ripetizione di greco e latino, ma finivamo sempre per parlare d’altro - mi meravigliavo che non volesse seguire la carriera accademica, credevo ingenuamente che gli accademici fossero come lui, gente che si infervorava a discutere di un sonetto o di un quadro. Non sapevo che i veri cattedratici tra loro non parlano quasi mai d’altro che di politica universitaria, di carriere e di odio per i colleghi. Cesare non diventò mai uno di loro. Accettò e tenne per qualche tempo la cattedra di italiano al Politecnico di Zurigo, ma questo di sicuro per la civetteria di poter dire che prima di lui c’era stato Francesco De Sanctis. Al massimo, ma solo negli ultimi anni, si divertì a recitare un po’ la parte dell’intrallazzatore letterario, eminenza grigia di manovre editoriali e di premi - ma come un gioco, senza fare sul serio. Ai bei tempi altri erano i suoi entusiasmi. Per esempio, lo affascinavano certi calciatori (sempre alla ricerca del mot juste, una volta mi domandò quale aggettivo secondo me si adattava meglio all’astuto Altafini juventino, se «sornione» o «paraculo»). Venerava Verdi, e l’estate, finita l’Aida e sfollato il pubblico (sospirava: «Io non ho trent’anni, ho dieci Aide a Caracalla!»), saliva sul palcoscenico vuoto e cantava con bella voce baritonale la parte di Amonasro. Per qualche tempo trovò in questo un’anima gemella in Gabriele Baldini, professore di anglistica e altro musicofilo sfegatato, nonché attore nella quotidianità almeno quanto Cesarino. Più anziano di Cesare solo di otto o nove anni, Gabriele al contrario di lui amava fingersi decrepito: non cercava di arginare la propria mole, che si rifaceva a quella del suo placido genitore, lo scrittore Antonio Baldini, creatore del personaggio di Melafumo («le polpe dei padri ricadono sui figli», diceva Gabriele), e nascondeva i fini lineamenti del viso sotto una barbaccia. Con lui Cesarino si atteggiava a adolescente discolo e scavezzacollo, e insomma i due in coppia si proponevano come Falstaff e il principe Enrico che va dal cinico mentore a farsi assolvere per le proprie marachelle. Scomparso assai prematuramente Gabriele, Cesare rimase devoto alla di lui vedova, Natalia Ginzburg, che ricambiò la sua ammirazione coccolandolo come un’altra sorella maggiore. Non era raro che le signore attempate da cui Cesare si lasciava viziare un tantino possedessero un ingegno non comune. Oscar Wilde disse di aver messo il suo genio nella vita e solo il talento nelle opere, pensando forse ai tesori di spirito e di inventiva che aveva sperperato nella conversazione a braccio. Lo stesso si sarebbe potuto dire di Cesare se fosse venuto a mancare alla stessa età dell’autore dell’Importanza di chiamarsi Ernesto; per fortuna, invece, il nostro fece in tempo a mettere per iscritto cose memorabili, non dico tanto le sue traduzioni da Molière, che mi parvero sempre un po’ viziate da una ostentazione di disinvoltura sostanzialmente poco garboliana: ma saggi di incomparabile acutezza, arguzia e indipendenza intellettuale, anche su argomenti non proprio di moda come Giovanni Pascoli. Tuttavia sospetto che, proprio come Oscar Wilde, Cesare non si sia mai deciso a dare forma definitiva ad alcune delle sue intuizioni più geniali, forse perché gli facevano comodo per i suoi numeri nei salotti: avaro nei commerci pratici, o perlomeno assai moderato nell’impiego del denaro, era prodigo di sé ogni volta che gli sembrava di avere davanti un pubblico congeniale, magari composto da una sola persona. Alcune sue battute erano stupende. A Cortina alcuni amici mondani e gaudenti gli offrirono insistentemente della coca. Per non offenderli con un rifiuto, Cesare spiegò, paziente: «Grazie no, a me non serve, ma intendiamoci, voi fate bene a prenderla. Vedete, voi avete un problema di motore, io semmai di carrozzeria... il mio motore sta benissimo». Questa fu spontanea, ma le osservazioni migliori nascevano da meditazioni e da studi che poi si dava pena di dissimulare. «Hai presente le ultime parole di Nerone?» ti diceva, per esempio. «’Quale artista muore con me”. Che baggianata! Ma era davvero così presuntuoso, così cretino, Nerone? Sarà la traduzione giusta? Svetonio riporta: ”Qualis artifex pereo”. Artifex vuol dire anche attore. Io lo tradurrei ”Ma guardatemi, muoio come un istrione”. Non è più poetico, più vero?». Oppure, ma questo era un suo cavallo di battaglia: «Inferno, canto primo, l’arrivo di Virgilio. ”Mentre ch’i’ rovinava in basso loco, / dinanzi a li occhi mi si fu offerto / chi per lungo silenzio parea fioco”. Parea fioco? I commentatori spiegano che Virgilio dava l’impressione di essere svociato perché aveva taciuto per tanti secoli; qualcuno va più a fondo, e suggerisce che la laconicità di Virgilio sia allegorica - Virgilio è il simbolo della ragione, e la ragione è stata assente per tanto tempo. Ma Dante dice ”parea”: appariva, sembrava - si rivolge agli occhi, non alle orecchie. ”Fioco” può significare anche fiacco, debole, indistinto. La parola chiave qui è ”silenzio”. Deve per forza significare assenza di voce? Non è proprio Virgilio che parla di ”amica silentia lunae” - di amichevole, provvida ASSENZA della luna? Io sostengo che in realtà Dante dice che Virgilio, il quale arriva come un’ombra - ”qual che tu sii, od ombra od omo certo!” - pareva, cioè APPARIVA, fioco, ossia poco luminoso, indistinto, vista la lunga ASSENZA». Convincente, anzi, magnifico: ma lo scrisse mai, Cesare? Non lo so. In compenso, lo ripeteva volentieri. Almeno vent’anni dopo avergli sentito esporre la sua teoria mi trovai a cena con Felice Ippolito, l’ex presidente del Cnen. Ippolito era appena arrivato dall’America con un volo notturno, a bordo del quale era capitato accanto a un altro italiano col quale aveva fatto amicizia: Cesare Garboli. «Che persona straordinaria! E che talento!» raccontava. «Nessuno di noi due aveva sonno, abbiamo conversato tutta la notte. A un certo punto, sull’Atlantico, ci siamo messi a guardare la luna. Improvvisamente lui si è battuto la mano sulla fronte e ha detto: ”Che sciocco a non averci pensato prima! Ma sì, ecco cosa significa quel passo di Dante!” Ha presente quando arriva Virgilio, e Dante dice ”Che per lungo silenzio parea fioco”? Io avevo sempre pensato a un Virgilio quasi muto” continuava Ippolito. ”Be’, ieri notte, Garboli...”». Cosa stimolava Cesare a fingere di avere avuto una intuizione lì per lì? Il desiderio di sbalordire l’interlocutore? Non credo, almeno, non soprattutto. Era piuttosto la disinteressata generosità del performer. Detta così e non esposta in una nota pedantesca, l’idea era più stimolante, più teatrale. Chissà. In ogni caso, non guastai all’illustre e simpaticissimo scienziato la certezza di aver visto nascere una grande intuizione. Masolino D’Amico