Giancarlo Dotto, 30 gennaio 2006
Il signore delle mosche: prove inconfutabili dell’esistenza di Satana, 12. L’Inter di Moratti. A pochi giorni dal suo primo decennio come presidente, chissà perché si ricordano solo gli inverni di Moratti
Il signore delle mosche: prove inconfutabili dell’esistenza di Satana, 12. L’Inter di Moratti. A pochi giorni dal suo primo decennio come presidente, chissà perché si ricordano solo gli inverni di Moratti. Lui che dà le spalle a San Siro, interrato nel suo cappottone buio, il bavero alzato, la sciarpa che lo strangola a mo’ di pitone, le mani in tasca, l’amore che diventa colera e chissà se mai un giorno diventerà collera e quel giorno sarà sempre troppo tardi. Sono dieci anni che entra a San Siro con il suo maliardo sorriso equino e se ne va che pare un funerale. Se c’è un genio della sconfitta, quel genio è Massimo Nestore Moratti di Bosco Chiesanuova. Capace di gettare nel water uno scudetto già vinto. L’uomo che un giorno si svena per regalarsi Ronaldo, quello che segna i gol sulla Torre Eiffel e simula il Cristo Redentore sulla baia di Rio, per poi lasciarlo in panchina a singhiozzare nel quarto d’ora che vale una vita. Lo tiene un anno in stampelle, lo accudisce come un figlio e, appena sano, lo consegna al Real Madrid dove già era finito Roberto Carlos, perché tra lui e Pistone, si capisce, meglio Pistone. L’uomo che con i suoi scarti ha fatto grande il Milan. Sempre stato un altruista, Moratti. L’eterno ragazzo che, da qui a breve, dovrà inventarsi una balla convincente per spiegarsi i suoi sessant’anni. Sempre dalla parte giusta, lui e la moglie Milly, dalla parte degli Strada e dei Muccioli, di Amnesty e del cardinale Martini, dei bambini delle favelas e degli extracomunitari. Ma sono le cose giuste che non stanno dalla sua parte. Si è regalato e divorato in dieci anni un centinaio tra giocatori e allenatori. Sconosciuti, cardiopatici, fenomeni prima e dopo l’Inter, quasi mai durante, brocchi tutta la vita. Una lista da cabaret. Brechet, Macellari, Gresko, Ferrante, Milanese, Farinos, Dabo, Luciano, Vampeta e poi ancora Helveg, Aaltonen, Adani, Ventola, Conceicao, Favalli, tanti altri. Arrivano all’Inter che sono pitbull e diventano barboncini da camera. Manca solo l’esorcista. Resta, dieci anni dopo, il figlio di Angelo, il petroliere che ingaggiava il Mago Herrera mentre lui, Massimo, il suo argentino, Hector Cuper, è un sassofonista mancato. Ha cominciato come un collezionista di assi presunti ed è finito come un bulimico che svuota le dispense. Una manna per i pusher del mercato. è lui il manifesto vivente del calvario interista. Di una sofferenza così equivoca per quanto è piena di godimento. Lui che ha la faccia malvagia di Joker e potrebbe fare a pezzi quello squalo di Moggi che altri campionati glieli ha sfilati con la mano degli arbitri. Capita così, è l’inerzia delle leggende, che lo scudetto dell’Inter diventa come il 53 a Venezia, un numero che si rifiuta e che forse ha smesso di esistere. Sarà per questo che l’Inter non è mai stata così amata e bestemmiata. Accerchiato dall’attesa e dalla devozione, lo scudetto mai vinto è quello più grande. Quello mancato all’Olimpico ha infranto cuori ma li ha conquistati per sempre. Un genio, Moratti, capace di ispirare a un anonimo tifoso lo striscione più geniale mai apparso in una curva di calcio: «Non so più come insultarvi». Giancarlo Dotto