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 2005  gennaio 22 Sabato calendario

Lezione di democrazia anticonformista, La Stampa, sabato 22 gennaio 2005 Hong Kong è in una fase politica difficile che riflette, amplificandole, le contraddizioni della Cina

Lezione di democrazia anticonformista, La Stampa, sabato 22 gennaio 2005 Hong Kong è in una fase politica difficile che riflette, amplificandole, le contraddizioni della Cina. Da un lato gode di grandissima libertà economica ed è una società moderna e aperta. Dall’altro subisce progressivamente l’influenza del regime di Pechino. La sua situazione ci ricorda il dubbio che molti analisti economico-politici stanno ponendosi con sempre maggior insistenza: riuscirà la Cina a mantenere l’attuale ritmo di progresso economico senza fare passi più veloci verso la democrazia di tipo «occidentale»? In questo periodo il «chief executive» di Hong Kong fa il suo importante annuale discorso programmatico. Tung Chee-hwa non è un leader stimato e popolare: è accusato di non governare con efficacia, di non mantenere le promesse, di aver gestito male diversi problemi. Inoltre i democratici più avversi a Pechino lo trovano debole e indeciso nel suo atteggiamento nei confronti della Repubblica Popolare, nella sua insicura interpretazione dell’idea di «un Paese, due sistemi». Quello di quest’anno è stato il suo settimo discorso ed è stato peculiare: tutto centrato sull’ammissione dei propri errori. Si è scusato, ha promesso di rimediare. Lo ha fatto anche perché sollecitato dai leader cinesi, sempre più nervosi per la mancanza di carisma con cui rende più difficile una virtuosa evoluzione dei rapporti fra Hong Kong e Pechino. L’occasione è adatta per riflettere sul complicatissimo problema dell’evoluzione economica, politica e istituzionale del colosso cinese. Un problema che se non trova buona e tempestiva soluzione mette a rischio non solo lo sviluppo della Cina, ma la situazione geopolitica ed economica globale. Quali sono il ritmo e il tipo del progresso democratico necessario per sostenere lo straordinario sviluppo economico? La risposta non è semplice e gli «occidentali» devono evitare l’arroganza di chi crede di avere la soluzione in tasca. A parte il necessario gradualismo di ogni cambiamento, il modo di intendere la politica della Cina, che si connette a una tradizione culturale millenaria, merita attenzione e rispetto nonostante le tragedie dittatoriali che ha comportato e che ancora influenzano parte dello stile di governo del Paese. D’altra parte i nostri meccanismi democratici hanno molti evidenti difetti. Anche noi dobbiamo essere pronti a migliorarli. Forse possiamo imparare qualcosa persino dall’esperienza e dal travaglio della Cina. Anche dal discorso di Tung e dai commenti più critici che ha ricevuto emerge ad esempio il candore con cui i cinesi credono che la politica comporti un coinvolgimento dall’alto della popolazione, che deve venir convinta a muoversi insieme verso mete condivise. Se il politico fallisce in questa azione non è buono, indipendentemente dal suo grado di rappresentatività formale. La leadership è capacità di trascinare e convincere, non semplice rappresentanza dell’interesse dei gruppi che, date le regole del gioco, risultano di fatto più potenti. Da noi l’idea del coinvolgimento fa paura: ci ricorda lo stato etico e il Minculpop. Le idee, i desideri, gli interessi degli elettori sono sacri e il fatto che siano diversi e conflittuali non fa che arricchire lo scenario democratico: si tratta solo di rappresentarli nel migliore dei modi, di far loro delegare il potere a un governo che rimanga strettamente controllato dal basso. Ma l’efficacia dei sistemi di governo che da ciò risulta è decrescente, il distacco fra elettori ed eletti aumenta, la fiducia nelle istituzioni diminuisce, le nostre società sono sempre più divise e faziose, la politica costosa, inconcludente, catturata disordinatamente da lobby legate a interessi sempre più specifici e fra loro conflittuali. Alla politica viene a mancare il respiro delle idee, l’ambizione degli obiettivi importanti, l’entusiasmo della gente. Se ci avventurassimo in uno stile più coinvolgente? Se chiedessimo ai leader, nel più assoluto rispetto delle regole democratiche, di trascinarci un poco, non solo di far finta di rappresentare i nostri interessi? Per amore di paradosso prendo spunto dalla frase più scandalosa del povero discorso di Tung. Talmente scandalosa da esser suggestiva. Verso la fine ha detto, con grazia e gentilezza: «Aiuteremo coloro che hanno ancora dubbi e antagonismi col governo centrale (di Pechino) a cambiare le loro idee». Il lavaggio del cervello? Non credo. L’idea che fra le responsabilità del politico ci sia quella di cambiare le idee della gente è molto cinese, dittatoriale, comunista, ma merita qualche attenzione anche da parte delle nostre stanche democrazie. I nostri politici non criticano mai l’elettorato, nemmeno quello avverso. Combattono i loro avversari ma non le idee dei loro elettori. Non cercano quasi mai di convincere la gente se non del fatto che loro sono più bravi degli avversari a rappresentarne le istanze, qualunque esse siano. La politica come la vendita dei dentifrici: nessuno mette in dubbio che i denti debbano esser bianchi, solo che il mio fa più bianco del suo: compralo. Votami: non ti dirò mai che hai idee sbagliate, le rappresenterò, le realizzerò, insieme a quelle di tutti gli altri. L’elettore ha sempre ragione: e non si combina nulla. Se i cinesi devono muoversi più rapidamente verso la valorizzazione dell’individualismo noi dobbiamo forse fare qualche passo verso il coinvolgimento non pubblicitario della cittadinanza nel suo insieme, per raggiungere obiettivi che diventano condivisi proprio perché chi non li approva viene «aiutato a cambiare idea». Ma proprio l’idea, nel merito della specifica questione, non solo il voto e il gradimento del leader che lo richiede. Franco Bruni