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 2006  gennaio 26 Giovedì calendario

Savoia Vittorio

• Emanuele Napoli 12 febbraio 1937. Figlio di S.M. Umberto Il, Re d’talia e di S.M. Maria Josè, Regina d’Italia, nata di Saxe Coburgo Gota, Principessa Reale del Belgio. Sposa a Teheran il 7 ottobre 1971 S.A.R. Marina Ricolfi Doria. Padre di S.A.R. il Principe Reale Emanuele Filiberto, Principe di Piemonte, Principe di Venezia. Arrestato il 16 giugno 2006 (Associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, al falso e allo sfruttamento della prostituzione, inchiesta promossa dal pm di Potenza John Henry Woodcock) • «[...] tra Vittorio Emanuele e la giustizia c’è sempre stato un continuo batti e ribatti, un giocare a nascondino, un contenzioso eterno da vita sul filo del rasoio. Già negli anni ”70 ebbe noie grosse a causa d’un traffico d’armi scoperto dal giudice Carlo Mastelloni di Venezia ma fu il magistrato che finì per avere la peggio: venne trasferito a Roma, aveva osato ficcare il naso su affari che coinvolgevano lobbies troppo potenti e protette. Tutto si concluse nella solita bolla di sapone. Di certo, in quel giro c’era chi spendeva il nome di Vittorio Emanuele, e qualcuno gli avrà pur detto che poteva farlo: del resto, l’erede al trono dei Savoia si era fatto una reputazione vendendo allo Scià Reza Pahlevi, di cui era buon amico, elicotteri prodotti dal conte Corrado Agusta che poi riapparivano armati di tutto punto in Sudafrica, a Singapore, in Malesia, a Taiwan, triangolazioni che l’Onu metteva spesso sotto accusa. Lui si difendeva: sono solo un intermediario d’affari, vendo persino aerei da carico russo. Nel suo piccolo ufficio di import-export, a Ginevra, un giorno mi mostrò con orgoglio il modellino di uno Yak sovietico, ”questo velivolo è robustissimo, costa poco, trasporta molto”. Andò peggio una sera d’estate del 1978 in quel di Cavallo, isolotto per vacanze miliardarie e per faccendieri ozianti come Silvano Larini, amico di Silvio Berlusconi e cassiere dei conti segreti di Bettino Craxi. Vi erano affinità, diciamo così, da affiliazione: alla P2 di Licio Gelli, visto che il principe vi figurava col numero 1621. Savoia e massoneria, un’antica storia di affari e intrallazzi, avevano scritto maliziosamente i giornali. Quanto a Larini, Vittorio Emanuele lo frequentava, e anche questa coincidenza - più tardi rivalutata da Mani Pulite - avrebbe dovuto allarmare chi non crede al caso e pensa sempre al peggio (Andreotti docet). Ma stavolta la cronaca si interessò di un’altra burrascosa amicizia, quella con Nicky Pende, playboy e figlio di uno dei medici più noti e ricchi di Roma: Vittorio Emanuele era geloso della bellissima moglie Marina Doria, quella notte si sbronzò e litigò furiosamente con Nicky a tal punto che scese sottoponte della sua barca e ne riemerse armato di un fucile. Sparò e colpì un giovanotto tedesco, Dirk Hamer. Era il 18 agosto del 1978. Il ragazzo non aveva vent’anni. Morirà, dopo atroci sofferenze (gli amputarono persino una gamba pur di salvarlo), il 7 dicembre. Fu una vicenda oscura. Ma qualche anno dopo, nel dicembre del 1991, al processo di Parigi fu assolto dalla Chambre d’accusation: niente omicidio volontario, solo una lieve condanna a 6 mesi con la condizionale per porto abusivo di arma da fuoco. Erano pure gli anni in cui l’opinione pubblica italiana cominciò a parteggiare per il rientro dei Savoia in Italia: ”Ormai sono politicamente inoffensivi”. Vittorio Emanuele su questo concordava pienamente: ha sempre disprezzato politica e politici, al massimo gli potevano essere utili per i suoi affari da esule regale. Merito anche del discreto lavorìo diplomatico tessuto dalla madre, la regina Maria José, che culminò nell’incontro segreto a Ginevra con il presidente Pertini (fu proprio Repubblica a svelarne i dettagli). Maria José era un’interlocutrice credibile, non aveva mai celato la sua disapprovazione nei confronti delle scelte di casa Savoia. Non seguì Umberto a Cascais, in Portogallo, rimase coi figli in Svizzera: la chiamarono ”regina rossa” per le sue vaghe simpatie socialiste, la contestatrice di casa Savoia. Le sinistre decisero che era venuto il momento di ripensare alla XIII disposizione transitoria della Costituzione che vietava agli eredi maschi dei Savoia di rimettere piede in Italia, e poi Vittorio Emanuele aveva dichiarato pubblicamente di rinunciare al trono, di accettare la Repubblica italiana e la sua costituzione. La suoneria del suo telefonino era l’inno di Mameli. ”Vorrei poter morire da italiano in Italia”, mi disse una volta, ma poi continuò a preferire la sua Villa Italia, in riva al Lemano. Tutto era pronto per il gran rientro. Ma forse non tutti lo volevano. C’era chi non si fidava della sua conversione repubblicana. L’occasione per verificarlo fu un lugubre anniversario, quello delle leggi razziali del 1938, sottoscritte dal nonno Vittorio Emanuele III. Il Tg2 volle intervistarlo. Gli chiesero: ”Principe, cosa pensa di quella firma che suo nonno appose sotto il decreto delle leggi razziali volute dal Duce? Non crede che sia giusto scusarsi?”. Vittorio Emanuele arrossì come sempre gli capita quando si trova in difficoltà. In fondo è un timido. Farfugliò: ”No, perché io non ero neanche nato”. Invece, a dire il vero, era nato l’anno prima, il 12 febbraio del 1937. Ma il punto era un altro: Vittorio Emanuele reclamava da anni il ritorno in Italia, si era persino rivolto alla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Non riusciva però a sconfessare quel gesto, e quindi la Shoah. In verità, al principe mancava il senso della Storia, un vuoto culturale che lo metterà sempre con le spalle al muro. Provò a rimediare: ”Quelle leggi non erano poi così terribili”. Giustamente scoppiò il putiferio. L’avvocato Giuseppe Morbilli cercò di metterci una pezza, ma ormai Vittorio Emanuele aveva perso il controllo della situazione e se la prese con il giornalista, accusandolo di volerlo far ”cadere in trappola”. Ecco: è tutta la vita che Vittorio Emanuele si è sentito intrappolato dal suo nome e da un destino che non ha mai sopportato. Tornò in Italia quattro anni fa e subito dopo l’Italia se ne dimenticò» (Leonardo Coen, ”la Repubblica” 17/6/2006). «Anche Maria Gabriella, mentre litigava con lui, diceva ai giornalisti che non voleva parlarne male: ”In fondo, è così simpatico”. Nessuno ha mai capito bene quanta ironia ci fosse, e se ce n’era. Molti potranno dire d’averlo visto ridere o sorridere. Pochi d’averlo visto piangere. ”Non posso farlo”, ha sempre detto. Può darsi che sia vero. Eppure, in questa contraddizione sta tutta la sua pena, quella di un uomo che ha sempre finito per sfidare la vita contro vento, dai suoi primi giorni, quando è stato costretto a seguire in esilio il ”Re di maggio”, a tutti quelli che sono venuti dopo, riempiti sempre di sospetti, accuse, liti e di processi, che molte volte si è pure cercato da solo, ma tante altre gli sono capitati addosso tra capo e collo, come un conto da pagare, una condanna da portare. [...] Lui è quello che quando nel ”96 cominciarono a decidere in Parlamento di farlo rientrare in Italia, riuscì a correre subito alla televisione svizzera a proclamare che ”la monarchia è superiore alla Repubblica” (25 ottobre ”96), e a replicare nemmeno due mesi dopo che in ogni caso lui non era disposto a giurare fedeltà alla Repubblica italiana. Il risultato fu che vinsero le polemiche e l’iter si fermò. Ma se i giornalisti passavano la frontiera per andarlo a trovare, il principe in esilio pativa come un disperato, si arrabbiava e non si dava pace. Dov’era l’errore, allora? Guai a dirgli, poi, che forse se l’era cercata, perché non ci vedeva più ed era capace di cacciare fuori di casa l’incauto di turno. Vittorio Emanuele non ha un percorso immacolato, lasciato alle sue spalle. Ma più che di peccati (anche di quelli, chi non li ha), la sua vita sembra piena di errori e di sfortune. Certo, c’è il buco nero di Cavallo, quando il 18 agosto del 1978 il giovane Dirk Jeerd Hamer fu colpito da una pallottola calibro 38 e perse la vita qualche mese dopo. Ma nel ”91 il Tribunale di Parigi assolse il principe dall’accusa di omicidio volontario, pur fra mille polemiche e qualche dubbio. Altre ombre, poi, aveva lasciato la vicenda che lo vide coinvolto assieme a Corrado Agusta, proprietario della fabbrica di elicotteri, uno che si raccontava fosse stata fatto conte per decreto di Mussolini. Tra i suoi clienti Agusta aveva lo Scià di Persia, che era amico dei Savoia e corteggiava Gabriella, una delle sorelle di Vittorio Emanuele. Il principe finì in affari con il padrone degli elicotteri. Secondo la Procura di Venezia, Agusta avrebbe venduto a Paesi sotto embargo centinaia di elicotteri piazzati allo Scià. L’inchiesta finì a Roma e sparì nel nulla, con le sue storie strane di fondi neri e conti segreti. Tutto svanito. Restarono solo le voci. Ma di voci e di chiacchiere, Vittorio Emanuele ha riempito un mucchio di cose, e ha riempito tutta questa sua vita in salita, fra un errore e una gaffe, una lite e un cattivo pensiero. Dalla sua stima e amicizia per Bettino Craxi, mai smentita e mai confermata, alla antipatia per l’ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, questa invece sempre gelidamente negata in pubblico. Attorno ai politici italiani preferiva il silenzio. Strano da uno come lui. Solo per Silvio Berlusconi, si lasciò andare a commenti entusiastici: ”¢ un buon manager, può mettere a posto l’Italia”. La verità è che Vittorio Emanuele ha sempre dovuto pensare a mettere a posto quello che gli accadeva innanzitutto. Già da bambino, non doveva essere il prediletto di re Umberto, che nel ”69 poi si arrabbiò con lui perché non voleva che sposasse Marina Doria. Siccome Vittorio Emanuele fece di testa sua, il re padre non gli conferì nessun titolo per ripicca. E allora ci pensò lui, dopo: principessa di Napoli e duchessa di Savoia. In compenso, per la successione virtuale, molto virtuale, a un trono che ancora non esiste, cominciò la guerra fredda con Amedeo d’Aosta. Battute e insulti da lontano. Fino all’incontro ravvicinato in Spagna, per il matrimonio di Felipe, il figlio di Juan Carlos, e Letitia. I due si ignorarono quasi tutto il giorno. Poi venne la cena. Quando si trovarono di fronte, Vittorio Emanuele colpì con un destro il cugino. Così raccontarono i testimoni. Un nobile egiziano corse a raccogliere Amedeo d’Aosta. E lui se ne andò impettito senza proferir parola. Litigò anche con le sorelle, quando morì la regina, Maria José. Azione legale per impugnare il testamento. Ritirò tutto quando si sposò suo figlio, Emanuele Filiberto. Era più importante averle al matrimonio, disse. Perché a leggere bene, tra le cose che dice e quelle che combina, Vittorio Emanuele sembra quasi un gran pasticcione, che ha normalmente disseminato la sua vita di gaffes e di cose incredibili [...] Una volta sfogandosi con i giornalisti sgridò quasi il Papa: ”E pensare che gli avevo consegnata la Sindone donata da mio padre Umberto. Ah, lo avessi saputo prima...”. Un’altra volta costrinse il povero avvocato Morbilli, suo portavoce, a far rifare per la terza volta l’intervista a un giornalista del Tg2. Continuava a non condannare le leggi razziali. L’avvocato lo implorava: ”Ma perché? Basta che dica quello che dice a me quando chiacchieriamo insieme”. E lui: ”Sì, ma quello mi provoca. Non voglio dargliela vinta”. Anche un po’ sfigato alla fine. Il giorno che rientrò in Italia, nella sua Napoli, come diceva lui, si trovò all’aeroporto che mentre recitava, ispirato come un poeta, che ”per me, oggi, è come se fosse passato soltanto un attimo da quando ho lasciato questo paese per un esilio che non capivo”, hanno cominciato a insultarsi e a picchiarsi attorno a lui come forsennati, con cariche, spinte, botte, cori, di tutto. E lui che doveva piangere per la commozione si mise a gridare, ”andiamocene via da qui, andiamo!”. Poi confessò: ”A un certo punto volevamo tornare in Svizzera”. E pensare che per rientrare da noi era stato un anno di tira e molla incredibili. Ma è la sua salita. Se non gliela dà il destino, se l’inventa lui» (Pierangelo Sapegno, ”La Stampa” 17/6/2006). «Se è finito così, la colpa è anche un poco nostra: attendendo tanto a lungo che cadesse il veto al suo ritorno, Vittorio Emanuele si è convinto di essere sul serio l’erede di Carlo Alberto e del padre della patria di cui porta il nome. Il suo dramma è stato di sentirsi davvero il mancato re, possibilmente di prima del 1848 e della concessione dello Statuto; e quindi di comportarsi come un monarca, non impegnato dalle leggi, libero dai tediosi vincoli che regolano la vita dei sudditi. La Repubblica, come Vichy per de Gaulle: nulla e non avvenuta. Se doveva scrivere una lettera al presidente, la indirizzava al ”sig. Pertini, palazzo del Quirinale”; come ci si rivolge a un inquilino moroso che ha occupato una casa altrui. Se gli chiedevano delle leggi razziali firmate dal nonno, rispondeva che ”non erano poi così terribili”, e insisteva fino a quando avvocati accorti gli facevano notare che così il ritorno si sarebbe allontanato. [...] Da un’altra storia ancora più brutta – isola di Cavallo, 17 agosto 1978, il giovane tedesco Dirk Hamer ferito a morte da un colpo partito dalla barca del principe – Vittorio Emanuele uscì assolto, dopo essere entrato nel tribunale di Parigi in manette. Ma neppure allora seppe trovare le parole giuste: ”I giudici francesi hanno stabilito che non ho fatto nulla, anzi, che non è successo nulla”. Aveva otto anni, quando deve lasciare prima il Quirinale, dove viveva, e poi Napoli, dov’è nato il 12 febbraio 1937, per l’esilio. La malinconia e la gravità del padre Umberto gli sono sconosciute. La principessa Maria Gabriella non lo invita a una festa campestre, e Vittorio Emanuele sale sull’aereo per bombardarla di pomodori (è lui stesso a raccontarlo nell’autobiografia). La madre Maria José gli parla della Ferrari del fratello Leopoldo del Belgio, e lui per impressionarla guida a 250 all’ora sull’autostrada per Reims. All’esilio austero in Portogallo preferisce quello mondano in Svizzera, lo chalet di Gstaad, la villa di Ginevra con 30 stanze e piscina coperta, l’amicizia con il conte Agusta e Reza Pahlevi. Lui fa da intermediario per vendere gli elicotteri. Dello scià è ospite per le nozze con una campionessa di sci acquatico osteggiata dal padre (’ho anche raccolto un dossier per dimostrare che Marina ha nobili origini, invano”) e celebrate prima a Las Vegas e poi appunto a Teheran. Affari, mediazioni, traffici. D’armi, ipotizzò il giudice veneziano Mastelloni. L’incontro con Licio Gelli. C’era anche il suo nome nelle liste P2: Vittorio Emanuele entrò in manette nel tribunale di Parigi quando fu processato, e assolto, per l’incidente avvenuto sull’isola di Cavallo il 17 agosto 1978: il giovane turista tedesco Dirk Hamer fu ferito a morte da un colpo di pistola esploso dalla barca del principe ”Savoia Vittorio Emanuele, casella postale 842 Ginevra, tessera numero 1621”. L’amore per l’Italia è sincero: per tornarvi non si è risparmiato umiliazioni, alternate a scatti d’orgoglio che in un attimo gli costavano più di quanto aveva guadagnato in anni di umiltà. ”Se incontrassi per strada Ciampi non gli chiederei nulla. Io e mio figlio non aspettiamo l’elemosina da nessuno! Gli direi buongiorno perché ho rispetto per la carica, non per la persona”. Poi però a Ciampi scrisse una lettera dignitosa, così come a Cossiga – ”Vittorio Emanuele è un uomo semplice” fu il definitivo giudizio del presidente emerito ”, a Scalfaro, a Wojtyla e al vescovo di Susa. Si è anche appellato alla convenzione di Schengen e alla Corte europea di Strasburgo. Grato per il sostegno ricevuto, alle scorse politiche ha annunciato il voto a Berlusconi. Tutto per un rientro che sarebbe generoso definire trionfale. Davanti al Duomo di Napoli lo accolgono con le bandiere dei Borboni: il principe è contestato da destra; ai nostalgici di Franceschiello si uniscono i missini della Fiamma tricolore e i disoccupati organizzati; al grido ”traditori, jatevenne” i Savoia guadagnano la cappella di San Gennaro da un ingresso secondario, tra fumogeni e getti d’acqua. Ugo D’Atri presidente della guardia d’onore del Pantheon tenta di reagire e innalza le insegne sabaude; gliele strappano e le bruciano sul sagrato. Lo stile dei principi è quello di Antonio Fazio, l’inviato delle Iene Enrico Lucci viene malmenato dalla scorta. Eppure qualcuno cominciava a prenderlo sul serio, il re mancato. La sera di quello stesso rocambolesco 15 marzo 2003, a Napoli, trecento aristocratici lo attendevano in piedi al San Carlo. Il lungo applauso commosse il principe, che si portò poi a Torino con quaranta medaglie da assegnare ai sostenitori (scese ovviamente al Principi di Piemonte, dove aveva riservato la suite da 70 metri quadrati con vista su Mole e Superga, più 25 stanze per i dignitari al seguito). C’era un’Italia cui Vittorio Emanuele non dispiaceva, che anzi se lo contendeva, agitandosi per una foto, un invito, un party [...]» (Aldo Cazzullo, ”Corriere della Sera” 17/6/2006).