Varie, 26 gennaio 2006
BUZZI
BUZZI Aldo Como 10 agosto 1910, Milano 9 ottobre 2009. Architetto. Scrittore • «[...] uno dei più longevi scrittori italiani [...] ha iniziato a scrivere i libri per cui è noto subito dopo essere andato in pensione, a oltre sessant’anni. Ma cosa ha fatto nei dodici lustri precedenti? Di tutto. [...] ”Finito il liceo, nel 1928, per un anno ho studiato musica. Volevo diventare un concertista, dato che avevo un buon orecchio. Ma poi ho capito che non sarei mai stato un genio musicale, e un musicista fallito è doppiamente fallito, come uno scultore, mentre un ingegnere senza genio può essere anche un buon ingegnere, lo aiuta il mestiere. Un altro anno l’ho passato alla Biblioteca del Castello Sforzesco a leggere e studiare. Quindi un mio biscugino, Tommasino Buzzi, che lavorava nello studio di Giò Ponti, mi ha suggerito di iscrivermi ad architettura: è una facoltà che ti prepara a mille mestieri. E così è stato”. Ad architettura Buzzi ha incontrato alcune delle personalità più interessanti della sua generazione: Alberto Lattuada, Renato Castellani, un regista oggi dimenticato, Luigi Comencini e Saul Steinberg, arrivato dalla Romania. Cosa le interessava? ”Il cemento armato, ad esempio, una materia interessante. Studiando architettura si comprende come funziona, capisci dove un soffitto è teso e dove è compresso [...] La sorte mi ha trattenuto fuori da due cose che sembravano inevitabili: il battesimo cattolico e la tessera fascista. Mio padre era agnostico e mi ha detto: da grande deciderai tu. Per quanto riguarda il fascismo, ero uno dei pochissimi non tesserati. Un giorno compare sulla rivista del GUF la notizia che ero diventato il fiduciario della facoltà. Sono andato dal dirigente del Fascio e gli ho detto: ”C’è un errore, non sono neppure iscritto’. ”Non c’è problema, mi ha detto, ti diamo subito la tessera’. ”No, grazie’”. E dopo i cinque anni di studi? ”Dopo la laurea ho aperto uno studio, ma subito è scoppiata la guerra. Abbiamo fatto in tempo a sistemare una villa sul Lago di Como, a costruire una darsena. Poi basta. Perciò sono andato a Roma, chiamato da Lattuada per il suo primo film, Giacomo l’idealista. Ero il suo aiuto, ma ho fatto anche la sceneggiatura, insieme a Emilio Cecchi, adattavamo il romanzo: una grande scuola”. Era già uno scrittore? ”No, non proprio. Allora si faceva di tutto. Pensi che sono stato anche scenografo e costumista in altri film”. E la guerra, ha combattuto? ”Quando sono stato chiamato militare ero a Roma, dove vivevo in una albergo di lusso, grazie al cinema. Sono partito per Vipiteno. Dovevamo accogliere i militari italiani che tornavano dalla disgraziata campagna di Russia: pieni di pidocchi da ripulire, per poi infilarsi in camerate dove c’erano le cimici [...] Mia madre, che era tedesca, cucinava ottimamente, una cucina mista, tedesca e toscana. Pensi che durante la prima guerra mondiale, avevo 4-5 anni e parlavo tedesco, ma ho smesso di farlo: in casa era proibito, non si voleva passare per nemici”. E dopo il 1943? ”Sono stato salvato dall’invio al fronte da Leonardo Sinisgalli, il poeta, che era allo Stato maggiore e mi ha messo nel servizio aerostatico, nei palloni, a via Nomentana. Poi sono andato ad Arona, dove c’era Usellini, il pittore, e poi ancora a Roma: non avevo risposto alla chiamata di Salò. Volevo tornare a fare del cinema, anche per campare”. Buzzi possiede un’altra dote lombarda: la praticità. La mescola a una forma inconsueta di serietà; è burbero, ma capace di inattese gentilezze: ha il culto dell’amicizia. Chi sono per lei i veri amici? ”Le persone che hanno le medesime intenzioni, le stesse idee sui principali problemi della vita”. Un altro aspetto della sua personalità è l’essenzialità. Sono tutte doti che funzionano come il ripieno, mentre la pasta che le avvolge è l’humor, una dote che lo ha aiutato a vivere così a lungo, a mantenere questa invidiabile lucidità mentale. A Roma ci è rimasto vent’anni. Perché ha lasciato il cinema? ”Mi ero stufato e cominciava a piacermi l’idea di scrivere”. Nel frattempo Buzzi aveva pubblicato anche un piccolo libro, Taccuino dell’aiuto regista, uscito da Hoepli nel 1944, composto d’immagini e brevi testi, impaginato da Bruno Munari, con cui ha anche collaborato per una collana di sceneggiature cinematografiche dell’Editoriale Domus. Ha trascritto Vampyr di Dreyer, lavorando in cucina con la moglie; ha anche ricostruito le planimetrie delle scene, da architetto. All’inizio degli anni Sessanta è tornato a Milano, ha tradotto in modo eccellente Fine della strada, il romanzo di uno dei maestri del postmoderno, John Barth, ed è andato a lavorare alla Rizzoli, come capo della redazione di narrativa. C’è rimasto nove anni, senza pubblicare nulla di suo, ma rivedendo traduzioni, sistemando i libri di altri. L’inglese lo ha imparato a Londra, negli anni Cinquanta, come racconta in La lattuga di Boston. Ma prima aveva viaggiato. Mitico resta il viaggio dal Messico al fondo del Sud america con un regista, il Conte Patellani, per il documentario America pagana. ”Ho lasciato il cinema perché m’interessavano i lavori che puoi fare da solo. Buñuel ha detto: Se sapessi scrivere, farei a meno di lavorare con 40 assistenti”. I suoi libri sono dapprima usciti presso Scheiwiller, il primo nel 1972, poi nel 1979 il suo album di riflessioni e racconti più noto: L’uovo alla kok presso Adelphi. Nel frattempo coltivava l’amicizia con Steinberg, a cui Buzzi è spesso associato, soprattutto dopo l’uscita del libro di lettere dell’artista romeno dirette all’amico italiano, un’opera straordinaria che testimonia, in assenza, dell’importanza di Buzzi nella vita di Steinberg, ma non solo. La sua è una presenza assente, o un’assenza presente. [...] che letteratura è la sua [...] ”Quella dove non c’è niente. Cerco di rendere interessante e piacevole il niente”. [...] definire il suo inclassificabile lavoro letterario, a metà strada tra il saggio e la ricetta, il racconto e la riflessione morale, diario e memoria. ”Con aggettivo orribile: buzziana. Quel mio parente architetto, Tommasino, ha costruito vicino a Orvieto una specie di villaggio e l’ha battezzata: Città buzziana. Non ci sono mai stato”. Per chi sono i suoi libri? ”Per me stesso e per i lettori simpatizzanti. Scrivo degli anti-bestseller”. In realtà, i suoi libri, tutti strettamente autobiografici, sono i libri meno autoreferenziali che esistano: aperti alla scoperta del mondo attraverso una qualità di cui è dotato, il gusto, sono costruiti ricorrendo a una tecnica del cinema, il montaggio, che Buzzi applica anche materialmente con colla e nastro adesivo, scrivendo con la fedele Lettera 22 e cucendo le sue pagine. [...]”» (Marco Belpoliti, ”La Stampa” 26/1/2006).