Il Giornale 20/10/2005, Pier Mario Fasanotti, 20 ottobre 2005
Italiani, non sempre brava gente. Il Giornale 20 ottobre 2005. Brava gente, tutto sommato? quel che si è sempre detto e scritto degli italiani col moschetto o il mitra
Italiani, non sempre brava gente. Il Giornale 20 ottobre 2005. Brava gente, tutto sommato? quel che si è sempre detto e scritto degli italiani col moschetto o il mitra. In patria o all ’estero. Forse per controbilanciare la pessima reputazione internazionale che abbiamo avuto negli ultimi tre secoli, malgrado un passato glorioso che ci ha visti padroni del mondo, portatori di civiltà e cultura. Basta leggere i più autorevoli commenti sul nostro modo di vivere. Nel panorama diplomatico le cose non sono andate meglio. Sprezzante la frase di Otto von Bismarck che esaminava la nostra caduta in basso fino a diventare» la quinta ruota del carro» nel concerto delle nazioni europee. Disorganizzati, talvolta straccioni ed esitanti, gli italiani in armi non sono stati però così buoni e civili come pretende la nomea di popolo bonario. Angelo Del Boca, autore della monumentale opera Gli italiani in Africa orientale, ripercorre alcune tappe feroci del nostro percorso militare. Cadono i tabù, e ne cadono così tanti che una certa sbrigativa storiografia dovrebbe essere riveduta e corretta. Con Italiani brava gente? (Neri Pozza, pagg. 304, euro 16) Del Boca inizia il suo «revisionismo» a partire dalla lotta al brigantaggio meridionale dopo il 1861. I soldati dell ’esercito borbonico che si dettero alla macchia furono all ’incirca 10mila e molti capeggiarono rivolte di contadini e dissidenti. La repressione del governo di Torino fu durissima ed ebbe come premessa ideologica il giudizio del generale Enrico Cialdini, luogotenente del re a Napoli: «Questa è Africa! Altro che Italia!I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono latte e miele». La rivolta dei briganti si accese in Basilicata. C ’erano all ’inizio 400 bande (80mila i gregari)mentre i paesi coinvolti erano oltre 1. 400. Non furono certo scaramucce, tanto è vero che in pochi mesi l ’esercito piemontese passò da 15mila a 50mila uomini, fino ad arrivare a 116mila. La regola era «fucilazioni in piazza», per dare l ’esempio, incendio di villaggi e masserie. La repressione fu così dura che un aiutante di campo di Napoleone III inoltrò proteste a Roma e in una nota scrisse: «I Borboni non hanno mai fatto tanto». Nell ’estate del ’61 i ribelli tentarono una sortita e morirono un ufficiale e 44 soldati del Regio esercito. Alla volta del Sannio partirono 900 bersaglieri, alcuni vittime di imboscate. Reazione violenta. A Casalduni cominciarono ad appiccare il fuoco alla casa del sindaco. Molti i bruciati vivi, numerose le donne stuprate. Eppure i due artefici delle stragi non avevano un passato di soldati spietati. Uno di loro, il tenente colonnello Negri divenne poi deputato e senatore e alla fine sindaco di Milano. Scrive Del Boca che non ci alcun processo: «Essi non ebbero neppure il fastidio di trincerarsi dietro gli ordini superiori così come avrebbero fatto 80 anni dopo i responsabili degli eccidi di Sant ’Anna di Stazzema e di Marzabotto». Nel 1885 inizia l ’avventura coloniale in Africa. Le truppe italiane sbarcano a Massaua. Due anni dopo a Nocra, una delle 209 isole al largo di Corno d ’Africa, il penitenziario si trasformò in un lager. Temperatura fino a 50 gradi, acqua estratta da un pozzo, prigionieri nelle fosse. Riferiva il capitano Finzi: «I detenuti, coperti di piaghe e insetti, muoiono lentamente di fame, scorbuto e altre malattie...ischeletriti, luridi, in gran parte hanno perduto l ’uso delle gambe ridotti comesono a vivere costantemente incatenati sul tavolato alto un metro dal suolo». Una delle motivazioni nobili a giustificazione della presenza degli italiani inAfrica era la sua acclamata capacità civilizzatrice. Francesco Crispi nel 1889 firmava la convenzione contro la schiavitù, cui seguì l ’intesa di Bruxelles. In realtà, annota Del Boca, la tratta degli schiavi continuò, anche «per non scardinare la società tradizionale locale». Il generale Baratieri conosceva perfettamente gli itinerari seguiti dalle carovane schiaviste in Eritrea. Ma l ’Italia lasciò fare. I negri erano considerati bestie: alla vigilia della sconfitta di Adua, il generale Dalmormida riassunse così il suo pensiero: «Ai butuma quat granade e a l ’è faita» (in piemontese: «Gli lanciamo quattro granate ed è fatta»). Poi ci fu la Libia: doveva essere una passeggiata in quello «scatolone di sabbia». Non lo fu. Fu piuttosto un ’altra pagina buia, a contatto delle prime prove della «guerra santa» araba. Nell ’ottobre del 1911 gli italiani dovettero vedersela con quanto non avevano previsto: le insurrezioni. Nell ’oasi di Sciara Sciat due compagnie di bersaglieri vennero accerchiate e annientate. Di fronte alla furia islamica (occhi dei cadaveri cuciti, genitali tagliati, molti interrati fino alla testa) scattò la reazione. Spietata. Secondo alcune fonti arabe ed europee furono uccisi quattromila libici, anche a colpi di bastone. Luigi Barzini fu impressionato dalla forca eretta nella piazza del Pane, a Tripoli. Migliaia di arabi furono trasportati a Ustica, Ponza, Caserta, Gaeta, Favignana, Lampedusa. Ancora oggi, ricorda Del Boca, a quasi cent ’anni da Sciara Sciat, «ci sono famiglie in Libia che vorrebbero almeno sapere dove sono sepolti i loro cari». E gli italiani pagarono cara la «passeggiata»: per Mercurio Ruini, ministro delle colonie, «il deserto coloniale» uccise 10mila italiani. La famosa «quarta sponda» durò solo quattro anni. L’ottavo della popolazione libica sparì nei campi di sterminio. Straordinaria fu l ’ascesa di Rodolfo Graziani, tempo dopo. Secondo Del Boca il maresciallo, cui venne affibbiato il nomignolo di «macellaio degli arabi», aveva una strategia «che mirava più a colpire a morte l ’avversario che a occupare il territorio». Graziani era «l’uomo nuovo» sognato e scolpito dal fascismo, il novello Scipione l’Africano. Fu lui, nella rioccupazione della Libia, a inventare «il tribunale volante», giudici militari che piombavano nelle varie città, emettevano sentenze di morte e tornavano indietro in aereo. Graziani assieme a Badoglio decretò lo sgombero dell ’altipiano cirenaico: 100mila libici, metà della popolazione della regione, furono costretti a una marcia di mille chilometri. Poi i campi d ’internamento come quello di Soluch, che Del Boca accosta ad Auschwitz. Ci sono testimonianze: «Le esecuzioni avvenivano sempre verso mezzogiorno in uno spiazzo dove gli italiani portavano la gente a guardare...». Dal campo di el Agheila uscivano ogni giorno 50 cadaveri. Etiopia, 1935. Mussolini dà l ’ordine di usare gas tossici, iprite e fosgene, sostanze altamente ustionanti. Pratiche belliche vietate dalla convenzione di Ginevra. Telegramma di Mussolini, uno dei tanti: «Autorizzo Vostra Eccellenza a impiegare tutti i mezzi di guerra, dico tutti, sia dall ’alto come da terra: massima decisione». Indro Montanelli, corrispondente di guerra, giurò di non avere mai visto l ’impiego dei gas, dall ’inconfondibile odore di mostarda. Solo nel 1996 il ministero della Difesa italiano ammise che l ’uso era noto al maresciallo Badoglio. E Montanelli, grande giornalista, riconobbe che «quei documenti» gli davano torto. La violenza italiana ha conosciuto soste, manon sospensioni. Nella guerra fratricida durante e dopo la seconda guerra mondiale furono spietati da ambedue le parti. Del resto il partigiano giellista Giorgio Agosti impartì ordini molto chiari: liquidazione dei fascisti e collaborazionisti, «non disarmarenell ’immancabile abbraccio democratico della vittoria, ma tenere pronti gli animi e gli uomini in armi». Le rappresaglie contro i fascisti provocarono secondo Giorgio Pisanò 34mila morti. Giampaolo Pansa nei suoi libri parla di 20mila. Del Boca reputa credibili i dati ufficiali del 1946: 9.911 uccisi. Ma forse sono pochi, viste le sacche di silenzio e di omertà. Pier Mario Fasanotti