Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2006  gennaio 14 Sabato calendario

L’economista che dava lezioni anche al barolo. Il Giornale 14 gennaio 2006. Decise di darsi all’imprenditoria proprio nella fase in cui simpatizzava per il socialismo

L’economista che dava lezioni anche al barolo. Il Giornale 14 gennaio 2006. Decise di darsi all’imprenditoria proprio nella fase in cui simpatizzava per il socialismo. Non che fosse un marxista scatenato, ma corrispondeva regolarmente con Filippo Turati, di 17 anni più grande di lui. Il barbuto direttore di Critica Sociale dialogava volentieri col diciannovenne dalle cui lettere traspariva una solida concretezza. Studente di Legge a Torino, il ragazzo scrisse la prima volta a Turati per elogiare i Circoli studenteschi socialisti. Essi, diceva, sono ottimi» strumenti per sottrarre i giovani migliori alla neghittosità e apatia a cui scuole e università li predispongono». Parole che già rivelavano la sua tendenza a tenere prediche. Dopo la laurea, presa in soli tre anni, il ventunenne cominciò a inondare di articoli la rivista di Turati. Contemporaneamente scriveva su Devenir social di Georges Sorel, il sindacalista rivoluzionario. Erano i primi passi nel giornalismo, mestiere che abbracciò con convinzione fino diventare una firma tra le più autorevoli. Intanto, approfondiva gli studi proseguendo deciso nella carriera universitaria. Alla vigilia della libera docenza, fece l’affare della sua vita con l’acquisto di 15 ettari nelle Langhe. Li aveva messi in vendita la contessa Marenco di Castellamonte, nobildonna afflitta dalle angustie della grande proprietà ormai al tramonto. Il Nostro, dunque, mise gli occhi sopra Cascina San Giacomo. Tutti lo sconsigliavano per le pessime condizioni della tenuta. Casa diroccata e viti aggredite dalla fillossera. Mail giovanotto, soppesati i pro e i contro, fece la sua offerta. Un pugno di quattrini, quanti ne aveva e parsimoniosamente contati. La contessa accettò, consolandosi del poco con la maligna soddisfazione di essere riuscita lei, una volta tanto, a tirare un bidone. Il ventitreenne non era però tipo da fare scelte avventate e col tempo trasformò Cascina San Giacomo in una tenuta modello. Senza fretta, con ritmo contadino, ripiantò le viti, ristrutturò la casa, edificò la cantina e cominciò a vinificare. Lustro dopo lustro acquistò i terreni limitrofi fino a raggiungere una proprietà complessiva di 95 ettari. Oggi, a 44 anni dalla morte, i suoi eredi possono vantare una delle migliori aziende vinicole della Provincia Granda. Celebre per il Dolcetto di Vigna Tecc e i due Baroli, Connubi e Costa Grimaldi. Al culto della buona amministrazione e delle cose ben fatte, il signore di Cascina San Giacomo accompagnava quello del dovere e del sacrificio. A farlo di questa pasta era stata la madre, Placida Fracchia, di antica famiglia piemontese. Rimasta vedova di un ricevitore delle imposte, Placida allevò i suoi quattro ragazzi nel più saggio dei modi:dando una cultura ai due maschi e una virtuosa educazione alle femmine. Intuì subito le capacità del Nostro, che era il primogenito. Nonostante i pochi mezzi, lo fece studiare prima a Savona dagli Scolopi, poi al Liceo Cavour di Torino. Lo mantenne anche all’università, finché il giovane non si impiegò alla Cassa di Risparmio e poté fare da sé. In tutto questo, la donna riuscì a conservare il piccolo peculio lasciatole dal marito e a trasmetterlo intatto ai figli prima di morire.» Era di quelle - la ricordò anni dopo il Nostro in uno scritto che è anche una sintesi dei suoi propri valori -che sapevano sopprimere in sé ogni desiderio quando il dovere li chiama a operare il bene altrui. Concepì la vita, giustificata dal lavoro. Non si udì mai un lamento dalle sue labbra, professando che ognuno deve avere i propri dolori senza spargere lacrime vane quando era necessario operare». Cresciuto a questa scuola, il giovane capì che la giovanile adesione al socialismo era stato un equivoco. Troppo individualista e severa la sua concezione del mondo per delegare il proprio avvenire alla benevolenza dello Stato e ai moti di piazza. Dell’esperienza, gli restò il sogno di un mondo equilibrato. Né ricchi, né plebei, matutti in grado di diventare borghesi e adire le più alte cariche con le proprie virtù. Prese le distanze dal nascente collettivismo sovietico che annullava ogni sforzo e la fatica del singolo.» Gli uomini - disse -sono nati per creare soffrendo». Ma neanche cadde nella furia giacobina dei libertari che vogliono distruggere lo Stato. Senza fare dello Stato un mito, lo considerò una struttura necessaria purché» sia di tutti, per sostenere i deboli senza umiliare i capaci». Si riconobbe, insomma, per quel che era: un moderato. Presa la docenza e la cattedra di Scienza delle Finanze, divenne un maestro. Parte del magistero lo impartì sulle colonne del Corriere della Sera . Scrisse, in venti anni, più di 1700 articoli. Aderì al primo fascismo per il suo programmaliberista, lo ripudiò dopo l’omicidio Matteotti. Partì in esilio nel’43, rientrò dopo la liberazione di Roma. Se l’aereo americano che lo riportò dalla Svizzera fosse precipitato, il Nostro sarebbe oggi ricordato solo da qualche economista. Invece, è nella memoria di tutti. La Repubblica lo onorò assegnandogli uno dei castelli dei Savoia. Vi entrò in punta di piedi, fece scrupolosamente inventariare tutti gli oggetti e pagò di tasca propria l’unico che ruppe durante il soggiorno. Chi era? Soluzione: Luigi Einaudi (1874-1961). Lui monarchico, fu il primo Presidente della Repubblica. Nato a Carrù, ha lasciato un ricordo di piemontesità scrupolosa e modesta. Quando gli annunciarono l’elezione, disse:«Lor signori si rendono conto che io sono zoppo?». Era mingherlino, un po’ strabico e trascinava la gamba aiutandosi col bastone. Si era rotto il femore nel 1926. Sull’esperienza al Quirinale scrisse Lo scrittorio del Presidente. Oltre a corpose opere di economia, ha lasciato le celebri e divulgative Prediche inutili. Sposò un’allieva, la contessa Ida Pellegrini, ne ebbe tre maschi, tra cui Giulio, l’editore. L’Azienda vinicola Einaudi è a Dogliani. Giancarlo Perna