Il Secolo XIX 10/01/2006, pag.33 Maurizio Maggiani, 10 gennaio 2006
Le piastrelle di papà D’Alema e i cocci del caso Consorte. Il Secolo XIX 10 gennaio 2006. Caro Maurizio, lasciami affidare a queste righe un ricordo di vita, che può forse risultare attuale in questi giorni
Le piastrelle di papà D’Alema e i cocci del caso Consorte. Il Secolo XIX 10 gennaio 2006. Caro Maurizio, lasciami affidare a queste righe un ricordo di vita, che può forse risultare attuale in questi giorni. Fu verso la fine degli anni ’70 che mi accadde di accompagnare l’On. D’Alema in un giro di comizi elettorali in Provincia di Imperia. Parlo del padre, Giuseppe D’Alema, che fu deputato del Partito comunista italiano per diverse legislature. Mi capitò di accompagnarlo in auto da Genova a Imperia, assieme all’On. Franco Dulbecco, deputato professore e contadino di Civezza, una sera tiepida di maggio o giugno. Lo ricordo contento:ci raccontò di come avesse ultimato la ristrutturazione di una vecchia cascina in Umbria, alla quale pareva tenere molto. Ci disse che alcuni materiali, se ben ricordo parlò di ceramiche, piastrelle per cucina e bagno, gli erano stati donati da qualche cooperativa di produttori del modenese. Ci spiegò che, alla fine della guerra, nella zona di Modena esistevano diverse fabbriche di stovigliame in ceramica e che i padroni le chiudevano per trasferirsi armi e bagagli in Lombardia e riconvertire la produzione in più convenienti mattoni per l’edilizia. Raccontò che i comunisti emiliani organizzarono i lavoratori e le lavoratrici, difesero le fornaci, le fabbriche e il lavoro, crearono cooperative che iniziarono a produrre piastrelle in ceramica. Molti anni dopo, qualcuna di quelle cooperative si era ricordata di un dirigente comunista che aveva contribuito a dirigere quelle battaglie per il lavoro, e gli aveva regalato le piastrelle per la cascina che stava restaurando in Umbria. Mi vien da pensare che ci sia una differenza tra quelle imprese cooperative che nascevano nelle lotte per la difesa del lavoro e nell’impegno di comunisti come Giuseppe D’Alema, e i conti cifrati a Montecarlo di alcuni odierni manager del mondo cooperativo italiano. Il dottor Consorte dice che quei soldi «sono il frutto di legittime consulenze private»: sarà anche vero, ma un manager del movimento cooperativo che si difende con le stesse identiche parole usate in caso analogo dall’avvocato Cesare Previti fa una certa impressione. Permettimi di dire che preferisco la vecchia cultura comunista dei padri a certa ”modernità” dei figli. Renzo Ramando Genova Beh, da quello che ci racconta, signor Renzo, il vecchio Giuseppe non sarà affatto contento, ovunque ora si trovi ad attendere il Giudizio Finale, nel sapere che il figliolo ha venduto l’amata e sudata casetta paterna per acquistare la sua prima barca. Se la vita è fatta anche di metafore, diciamo pure che il figlio ha preso il largo dalle orme paterne, lasciando il sicuro ma angusto porto degli avi per le incertezze e le vertigini degli infiniti orizzonti della modernità. Ma l’onorevole D’Alema non è il dottor Consorte, e la confusione tra i due nuoce alla verità. Ma nuoce al movimento cooperativo darsi dirigenti indistinguibili da qualsiasi altro professionista a contratto, perché se ci rinunciano i movimenti sociali come le cooperative a praticare il principio che non esiste un solo, equivoco, sozzo e indecente modo di fare affari, allora sì che la sinistra ha un vero, ineludibile problema in casa. Le cooperative non sono solo supermercati, sono molte e importanti altre cose. Sono, a esempio, grandi imprese che costruiscono quartieri interi, eppure dirette discendenti di quegli uomini e quelle donne che coraggiosamente si erano messi insieme per salvare il proprio lavoro e la propria dignità di lavoratori;esattamente quella gente che ha regalato le piastrelle a Giuseppe D’Alema. Non si tratta oggi di onorare una memoria di vecchi ormai morti, ma di onorare un impegno che è stato preso e nessun dirigente e nessuna contingenza politica ha il diritto di abiurare. Un impegno che ha tanta ragione di essere oggi come nel 1946. Il danno e il torto non sono le telefonate di Fassino a Consorte, ma il fatto che sia stato deciso a suo tempo che il dottor Consorte fosse l’uomo giusto per fare la cosa giusta. E nessuno tra quelli che hanno deciso può con decenza dire o solo pensare che non sapeva, non poteva sapere. C’è un principio della filosofia confuciana che il presidente Mao ha utilizzato per la sua filosofia comunista:non importa di che colore sia il gatto purché mangi il topo. Io che non sono né confuciano né maoista ci tengo molto al colore del mio gatto. Maurizio Maggiani