Corriere della Sera 21/01/2006, pag.8 Marco Imarisio, 21 gennaio 2006
«Già 40 anni fa si voleva una banca, è finita sempre male». Corriere della Sera 21 gennaio 2006
«Già 40 anni fa si voleva una banca, è finita sempre male». Corriere della Sera 21 gennaio 2006. Bologna. Il nome per esteso dell’ospite a cui ha aperto la porta di casa era «Unica Polizza». C’erano grandi speranze sul nuovo arrivato, doveva essere il primo passo verso la creazione di una banca. Non ora, ma 42 anni fa. «Guardi, non si faccia venire idee strane. Erano altri tempi, e altri uomini». Guido Fanti sprofonda nella poltrona al centro del suo studio in via Zamboni e comincia a raccontare. In fondo, è lui il papà di Unipol. «Primavera 1962, io sono alla mia scrivania in via Barberia, la storica sede del partito. Entrano questi cinque amici, giovani cooperatori, comunisti e socialisti, e mi dicono che avrebbero un’idea da sottopormi». Questa: comperare la compagnia di assicurazione della Lancia, appena rifiutata dalla Fiat, che aveva lo jus primae noctis. sul mercato, si prende con poco. Quello è il primo passo, dicono i cinque, poi si lavora per creare una propria attività bancaria. Il segretario provinciale del Pci non ci sta troppo a pensare: «Sono d’accordo, fatelo. un buon progetto». A quei tempi, a Bologna senza il permesso del partito le Coop non compravano neppure gli stuzzicadenti, figurarsi una compagnia di assicurazione destinata a sdoppiarsi in un istituto di credito. La stagione del rinnovamento che avrebbe allentato il rapporto tra mondo cooperativo e i referenti politici, Pci e Psi, doveva ancora cominciare. Però, la banca di Unipol. Questa è capitato di sentirla anche di recente. Guido Fanti ride di gusto: «Non ci riuscirono allora, e ci provarono per dieci anni almeno prima di accantonare il progetto, è andata male anche stavolta. Si vede che è destino, meglio lasciar stare...». Gli scherzi finiscono qui. Fanti è un signore che decise di impegnarsi in politica dopo aver visto il cadavere di Sante Vincenzi, il capo della sua brigata partigiana, torturato e ucciso dai fascisti. Appena entrato nel Pci, andò a lezione di etica da Giuseppe Dozza, lo storico sindaco della Bologna del dopoguerra, ne divenne il successore nel 1966, è stato presidente della Regione Emilia Romagna, deputato e senatore, vicepresidente del Parlamento europeo. Ancora adesso che ha ottant’anni, quando prende la parola nella Direzione regionale ds, gli altri tacciono, e ascoltano. «Sapesse come mi manda in bestia, questa cosa che la parola Unipol è diventata un marchio a fuoco sulla pelle del partito. Non ci dormo la notte». L’arredamento della sua casa è spartano, quasi monacale. La libreria dello studio è di legno grezzo, stracolma di volumi. «Suppongo – dice – che le magioni di Consorte e Sacchetti siano ben più accoglienti di questa», ed è una frase velenosa che vuole rimarcare la distanza da un mondo nel quale non si riconosce. Gli occhi azzurri di Fanti si stringono, diventano due fessure. «Incoscienti» è l’unico epiteto non querelabile. «Espongono la terza compagnia assicurativa italiana al pubblico ludibrio, in un mercato feroce come quello». Fanti è un uomo genuino, fatica a trattenere lo sdegno. L’autocritica di Fassino alla Direzione nazionale Ds lo ha soddisfatto, ma con riserva. «Il riconoscimento degli errori è importante, ma è il minimo. Al di sotto di quella soglia non si può andare, sarebbe intollerabile se emergessero fatti nuovi». La vicenda della «sua» Unipol lo lascia interdetto. «Questa storia in realtà è cominciata sei anni fa con l’Opa su Telecom. Sei anni fa. E nessuno ai vertici che si sia posto qualche domanda. In questi mesi ai pochi che nel partito hanno manifestato un argomentato dissenso sulle scelte di Unipol, è stato opposto un silenzio tombale». Mentre parla, Fanti allunga il braccio verso uno scaffale dal quale prende fogli su fogli, le pezze d’appoggio ai suoi argomenti. «Guardi qua. Prima di diventare sindaco, dal Pci percepivo lo stesso stipendio di un operaio specializzato. Quando venni eletto, il partito mi diede una integrazione, perché il salario da primo cittadino era ancora più basso». Gli stipendi e le provvigioni da favola di Consorte e Sacchetti rivelano soprattutto un mutamento in corso, una modernizzazione forzata e secondo Fanti non necessaria. «Bisogna tornare allo spirito delle origini». Suona il telefono nel corridoio. E’ uno dei cinque cooperatori che si presentarono da Fanti quella mattina di tanti anni fa per parlargli di quella sconosciuta compagnia assicurativa. Anche lui è amareggiato per quel che ormai simboleggia la «sua» Unipol. Fanti ha una ricetta semplice per guarire le cooperative. «Meno listini di Borsa e più rapporti con il territorio, com’era prima. Perché a furia di cercare questa discontinuità con il passato per sembrare moderni, noi ci siamo snaturati, e Unipol non è finita tra le braccia dei capitani coraggiosi sognati da D’Alema, ma in quelle maleodoranti dei peggiori compari del sistema». Marco Imarisio