Francesco Sisci La Stampa 18/01/2005, 18 gennaio 2005
Capelli/2. Zaho Ziyang se li tenne bianchi, La Stampa, 18 gennaio 2005 Se c’è un ideale di comunista romantico questo non poteva essere che lui, Zhao Ziyang, spentosi ieri [lunedì 17 gennaio] a Pechino, dopo oltre 15 anni di arresti domiciliari
Capelli/2. Zaho Ziyang se li tenne bianchi, La Stampa, 18 gennaio 2005 Se c’è un ideale di comunista romantico questo non poteva essere che lui, Zhao Ziyang, spentosi ieri [lunedì 17 gennaio] a Pechino, dopo oltre 15 anni di arresti domiciliari. Era stato segretario generale del partito comunista cinese ed era stato deposto per il suo sostegno ai fatti di Tienanmen. Dopo la caduta ha trascorso 15 anni agli arresti domiciliari, circondato da uno strettissimo cordone di sicurezza, ma comunque ostinato a non volere un compromesso con il partito. Su Tienanmen, diceva, lui aveva ragione, gli altri, quelli che subito e poi via via sempre più numerosi erano andati con il flusso della Storia e avevano chiuso gli occhi sulla repressione, avevano torto. Notizie su di lui uscivano di rado. Dapprima si era detto che andava a giocare a golf, aveva rifiutato da anni di tingersi i capelli di nero, come vuole la moda dei politici di qui, e sul prato verde delle 18 buche spiccava la sua chioma canuta. Poi si è saputo che era stato male, che qualche politico in voga lo era andato a trovare. Così i dissidenti cinesi in esilio, i militanti della rivoluzione democratica pativano e soffrivano per lui, ex capo del partito che li aveva repressi. In realtà però la sua icona, di simbolo della fallita rivoluzione democratica cinese di Tienanmen si era andata sbiadendo per il successo delle riforme dei suoi successori ed anche per gli insuccessi delle riforme democratiche russe. Cadeva infatti pezzo dopo pezzo, con gli anni, il teorema che le riforme politiche verso la democrazia dovevano procedere insieme se non prima di quelle strutturali economiche. Tale teorema era stato il modello russo che aveva portato la democrazia a Mosca. Ma le riforme russe non stavano dando i risultati sperati. L’economia russa non brillava e poi negli ultimi anni anche la politica di Mosca aveva smesso di essere liberale e ha cominciato un processo di involuzione. Al contrario nello stesso periodo, la Cina manteneva un tasso di sviluppo economico intorno al 10% l’anno e, pur controllando fermamente la vita politica, allargava gradualmente le libertà sociali, la libertà di stampa e le libertà individuali. In qualche modo, sia in Occidente che in Cina, si faceva largo l’idea che era stata una fortuna che Tienanmen fosse fallita. Nei primi anni ’90 Deng Xiaoping, allora capo del Paese e decisore ultimo dell’intervento armato contro gli studenti, tentò più volte una riconciliazione con Zhao. Gli offrì un ministero o un altro posto prestigioso. Un sodale di Zhao, Hu Qili, aveva accettato, rientrando al potere come ministro dell’elettronica. Zhao invece aveva rifiutato, scommettendo in un rovesciamento della Storia, pensando che la morte di Deng avrebbe aperto nuove prospettive politiche. Però quando Deng effetivamente spirò, nella primavera 1997, era passato troppo tempo dal 1989. L’allora capo del partito Jiang Zemin si era consolidato al potere con una strategia astuta: aveva chiamato intorno a sé tutti i principali collaboratori di Zhao, a cominciare da Wen Jiabao, che nell’autunno del 1997 diventava vice premier. I nuovi dirigenti di Jiang non avevano a quel punto interesse a fare ritornare dal confino interno il loro vecchio capo Zhao. Questi avrebbe sconvolto equilibri consolidati, avrebbe potuto negare e stravolgere i risultati politici ed economici di quegli anni. Nella primavera del 1997 ci fu allora un bagliore. Filtrò la notizia che Zhao era andato a visitare la salma di Deng, uno scritto di Zhao apparve su un giornale di Hong Kong. Ma dopo qualche giorno tornò il silenzio, Zhao fu seppellito vivo una seconda volta, e questa volta, vista l’età, definitivamente. Paradossalmente Zhao potrebbe servire la causa della democrazia più da morto che da vivo. Da morto infatti si potrebbe cambiare il giudizio ufficiale su Tienanmen senza incrinare alcun equilibrio politico. Molti lo vorrebbero in Cina e all’estero, per amore della verità, della Storia e di quei tanti poveri giovani caduti in quella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989. Fuori da ogni convenienza politica Zhao allora potrebbe morire come un cavaliere romantico, come un rivoluzionario d’altri tempi, quale certamente fu. Nato nel 1919 era già un piccolo soldato comunista negli anni ’30 e venti anni dopo sosteneva lo spirito rivoluzionario del Grande balzo, per poi diventare critico degli eccessi della rivoluzione culturale. Raggiunse Mao a Yanan subito dopo la Lunga Marcia, voltando le spalle a suo padre, proprietario terriero nella provincia dello Henan. Alla fine dei ’50 sostenne il fallimentare Grande Balzo in avanti voluto da Mao, accusando i contadini di boicottare lo sforzo rivoluzionario. Nel 1978 andò poi con Deng e contro la banda dei quattro perché quella era la novità. Gli piaceva il nuovo, il cambiamento. Da primo ministro, negli anni ’80 promosse le riforme economiche studiando i monetaristi di Reagan e il liberismo della Thatcher. Non opportunismo politico, ma un tentativo di «comunismo romantico». In fondo, non si può dire ufficialmente, ma la Cina di oggi è in gran parte figlia sua. Francesco Sisci