Giancarlo Dotto, 24 gennaio 2006
Il signore delle mosche: Prove inconfutabili dell’esistenza di Satana, 10. La borraccia di Branco Non è un western di Sam Peckinpah
Il signore delle mosche: Prove inconfutabili dell’esistenza di Satana, 10. La borraccia di Branco Non è un western di Sam Peckinpah. la storia tutta vera di un diabolico inganno. Domenica sudamericana a Torino, quel 24 giugno 1990. Crani che si scottano al sole. Si gioca Brasile-Argentina, ottavi di finale della coppa del Mondo. C’è Diego Armando Maradona in campo, il resto non conta. Il mitico botolo è a terra che geme, la caviglia dolente. Si avvicina Claudio Ibrahim Vaz Leal, detto Branco, brasilero candido di nome e di fatto. Boccheggia, chiede acqua. Maradona e i suoi non si fanno pregare. La borraccia è tutta sua. Il brasilero è un atleta di Cristo, si abbevera fiducioso, tracanna, rutta, l’occhio leggermente bovino che s’increspa di commozione per quell’offerta generosa di chi gli è ostile per definizione. Beve tutto d’un fiato, troppo Branco, troppo candido, per associare qualunque sospetto a quel retrogusto di fiele. Non coglie nemmeno il ghigno di Maradona al suo fianco. Per il resto della partita Branco è una larva che si trascina roteando gli occhi, battendo i denti «come un Pierrot ingannato». Il suo famigerato sinistro è una cicca spenta, un fucile a tappo. Batte le punizioni e sviene. Gli escono solo stracci nemmeno bagnati. Da quel giorno Branco è un uomo che puzza di pesce marcio. Quattordici anni dopo Maradona, che ha una passione per il gesto delinquenziale, che sia la mano o la borraccia di Dio, lo fa sapere, sfiatando quel poco di voce che gli esce dalla carcassa da capodoglio. Gli avevano messo un roipnol dentro la borraccia, per ammazzare il suo sinistro. Malvagi. L’ipnotico che stende. Barbari. Lo dice il Vangelo, uno dei sette tipi di elemosina corporale, dare da bere agli assetati. ”Il diritto del labbro” nella tradizione musulmana. Impone ai padroni dei pozzi nel deserto di dare da bere al viandante e al suo cammello. Lo dice il santone Sai Baba, a mollo nel Gange, che l’acqua è simbolo di purezza e le mani che amano trasformano in acqua persino la sabbia rovente. Avvelenare l’avversario assetato e forse anche assatanato. Trattarlo come un piccione a Venezia. C’è qualcosa di più tecnicamente spregevole? Forse Eliogabalo che getta fiori al popolo affamato. Può darsi il gesto efferato del suiveur che consegna la borraccia vuota, senza nemmeno l’elisir di un’anfetamina, al poveraccio che sta scalando ed esalando, in punta di pedale gli ultimi tornanti afosi del Mont Ventoux. O, peggio, che affida alle stesse mani imploranti la bottiglietta di gazzosa col tappo a vite che puoi staccarlo solo coi denti. I caffè al cianuro di Pisciotta e Sindona, le lettere all’antrace o i polli alla diossina? A ritroso, l’infallibile vino all’arsenico dei Borgia e i funghi tossici di Agrippina? Letali quanto i succhi alla stricnina dei Boscimani e le frecce al curaro degli Indios. Le pozioni magiche della banda Marchi, sale e tronchetti d’edera, le stanno ancora studiando e gli ecoterroristi che pompavano veleno per topi nei panettoni, almeno lo facevano per un mondo migliore e poi erano cadeaux per giornalisti. Più malvagio degli argentini a Torino forse solo il soldato sulla roccia del Golgota che all’uomo sulla croce, assetato e morente, gli porge una spugna imbevuta di aceto. Giancarlo Dotto