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 2005  gennaio 09 Domenica calendario

La fine del monde: «Al Ritz, di cravatte, se ne vedono poche», la Repubblica, domenica 9 gennaio 2005 Parigi, 6 gennaio Caro G

La fine del monde: «Al Ritz, di cravatte, se ne vedono poche», la Repubblica, domenica 9 gennaio 2005 Parigi, 6 gennaio Caro G., avevi proprio ragione: di cravatte, al Ritz, se ne vedono poche. Tanto poche che quando sono arrivato, ieri verso mezzogiorno, mi sono bastati venti secondi per contarle. In giacca e cravatta c’erano infatti gli impiegati della reception, i concierges, gli uomini della sicurezza davanti alla grande porta girevole; più in là un vecchio signore che fumava il sigaro su una sedia a rotelle, e l’adolescente che spingeva annoiato la sedia a rotelle; quindi il proprietario dell’albergo, l’egiziano Mohammed al-Fayed, che incedeva col passo breve degli obesi vestito come un tempo i cantanti dell’avanspettacolo: doppiopetto grigio - chiarissimo, camicia rosa, cravatta topazio, garofano rosso all’occhiello; e infine il sottoscritto. Per il resto - benché gli uomini in movimento tra l’ingresso e la galleria che porta all’«Espadon» fossero almeno una trentina - solo camicie sbottonate, pullover a collo alto, T-shirts. Come al tennis o nei Café-Tabac dei dintorni. Aspetta ad esultare, però: non credere che mi stia preparando a sostenere che il Ritz è ormai un Holiday Inn. No: le mura del Ritz sono ancora quelle del palazzo del duca di Gramont, e l’elegante facciata che Hardouin-Mansart disegnò alla fine del Seicento non ha conosciuto ritocchi. Quanto a place Vendôme, sai bene che in specie adesso, con i bei grigi dell’inverno, è magnifica, una delle cinque o sei piazze più belle del mondo. Per più d’un aspetto, quindi, il Ritz è sempre il Ritz. Quando dici al tassista: «Place Vendôme, au Ritz», la frase ti risuona nell’orecchio per qualche secondo, aulica come un verso di Racine, e muove un mare di memorie. Tant’è che l’aver abitato nella vita in qualche centinaio d’alberghi non è servito, quando uno dei guardaportone in tuba nera e pellegrina azzurra è accorso ad aprire lo sportello del taxi, ad evitarmi un fremito. La morte della mondanità. Certo, i tempi sono cambiati. Il mondo è diverso per tante ragioni, e una di queste ragioni è che non esiste più il «monde». Non esistono più quelle poche migliaia di persone che avevano formato - pur avendo provenienze sociali diverse, e ricchezze della più svariata origine - una società abbastanza omogenea per gusti e comportamenti. Fu appunto per questa internazionale del danaro e delle buone maniere, il «grand monde», che César Ritz allestì agli albori del Novecento i suoi alberghi. Granduchi russi e miliardari argentini, aristocrazia europea e alta finanza americana, grandi vedettes dello spettacolo, diplomatici, qualche elegante avventuriera, e un piccolo gruppo di scrittori detti, a torto o a ragione, «mondani». Questa società (che cominciò a decomporsi dopo la Prima guerra mondiale per poi inabissarsi definitivamente negli anni successivi alla Seconda) era consapevole dei suoi privilegi, delle libertà pressoché assolute che gli venivano dalla collocazione sociale e dall’assenza di preoccupazioni materiali. Ma non era senza regole: e anzi aveva stabilito codici e protocolli piuttosto rigidi per quanto riguardava il suo «decorum»: le maniere, il vestire, il divertirsi. Così che quando un nuovo ricco, un «parvenu», metteva piede in un albergo come il Ritz, per prima cosa cercava di scimmiottare il «decorum» delle classi superiori. Paltò da viaggio all’arrivo, abiti grigio-scuri al pomeriggio, e la sera - sino alla soglia dei Trenta - il frac al ristorante. Oggi è diverso perché quei codici sono scaduti, e modelli che valga la pena d’imitare non ce n’è più. Ma intanto, essendosi moltiplicate vertiginosamente le medie ricchezze (le rendite o retribuzioni da 4-500.000 dollari all’anno), i «parvenus» sono divenuti milioni. Milioni di persone di tutti i continenti che s’accalcano verso gli alberghi, i ristoranti e i consumi di lusso, avendo come sole indicazioni estetico-mondane la pubblicità televisiva, le foto di Madonna o di Ronaldo o di Montezemolo, e i servizi dei rotocalchi sulle «vacanze dei Vip». I nuovi «parvenus». Ed eccoti un esempio di come la diversità dei tempi si manifesta al Ritz. Avevo detto all’inizio che sono approdato in albergo verso mezzogiorno: così, dopo aver aperto la valigia nella mia camera, era già ora d’andare a colazione. Mi sono quindi affacciato al Bar Vendôme, che rappresenta - se l’espressione non suona troppo irriguardosa - il «fast food» del Ritz: tavoli bassi da bar, uno smilzo menu di piatti leggeri, conto sui 65 euro a testa. C’era un ultimo tavolo libero, e l’ho avuto. Il posto non è male. Sedie comode, luci discrete (oltre alla bella luce invernale che entra attraverso una grande porta-finestra dal giardino dell’albergo), sobrie decorazioni natalizie: e se devo giudicare dal mio St. Romain, cantina eccellente. Eppure nulla come il Bar Vendôme di ieri all’una poteva illustrare meglio il fenomeno di cui stiamo parlando, cioè a dire il mondo senza più «monde». Ai tavoli sedevano infatti uomini e donne con fisionomie da turismo spicciolo, e vestiti in modo sconfortante: colori da spiaggia nel gennaio parigino, scarpe da footing, piumoni da gita in montagna. All’aspetto, la stessa clientela dei tanti restaurants a buon prezzo disseminati tra l’Opéra e la Madeleine. Ma, beninteso, con molto più danaro da spendere. Famiglie arabe con donne dai fianchi straripanti, le bocche unte, le unghie laccate d’un rosso nerastro. Asiatici a disagio con le posate. Americani che avevano sistemato le giacche sulla spalliera della sedia. Nel mezzo, un tavolo sbalorditivo: un uomo in giubbetto di pelle gialla, una moglie scarmigliata come se fosse appena scesa dal letto, e su un seggiolone una bambina di due o tre anni che ogni tanto scoppiava a piangere. Due tavoli russi: al primo una donna d’almeno cento chili insaccata in una blusa d’angora rosa, un cappello rosso di tipo texano, e a fianco un giovanottino in giacca blu e canottiera (ho detto canottiera) bianca. Per loro, dall’inizio alla fine, champagne. All’altro tavolo russo, tre coppie sui quaranta: voci eccitate, il bicchiere continuamente proteso per i brindisi, sgarberie con i camerieri. Champagne anche qui, e col caffè vari bicchieri di cognac o calvados. La belle époque. Potrei continuare, ma credo d’averti già dato un’idea di chi c’era a colazione, ieri, al Ritz. Devo dirti adesso chi c’era la sera del primo giugno 1898 in cui l’albergo venne inaugurato, o lo sai già da uno dei tanti libri sulla Belle époque? In ogni caso, eccoti un piccolo elenco di nomi: la principessa Murat, Boni e Anne de Castellane, la contessa de Chevigné, il marchese de Ganay, il duca e la duchessa de Mornay, il duca e la duchessa de Rohan, il duca e la duchessa d’Uzes, e un bel po’ di stranieri tra i quali i granduchi Michail e Alexandr Romanov, con i duchi di Marlborough, di Sutherland e di Norfolk. Strappato da César Ritz al Savoy di Londra, Auguste Escoffier guidava in cucina diciotto assistenti-cuochi. Tra gli invitati c’era anche Proust? Quando nei Trenta cominciò a lievitare la leggenda di quest’albergo, madame Ritz sosteneva che sì, c’era anche lui. Vero o non vero, è indubbio che il rapporto dello scrittore con il Ritz fu molto stretto sino alla fine (un paio d’ore prima di morire fu qui che mandò Odilon Albaret a prendere una birra gelata), oltre che certamente fruttuoso per il suo libro. Con quale perseveranza Proust esercitò in questi saloni, infatti, la sua passione d’entomologo, la sua vena mile Zola. Il puntiglio quasi documentario con cui collezionava notizie, dettagli e pettegolezzi sulle maniere, i modi di dire, le insofferenze dell’aristocrazia. Basta pensare al legame con Olivier Dabescat, il Maitre del ristorante, dal quale s’informava incessantemente su come si muovevano a pranzo, su quel che dicevano (e quando possibile, con chi fornicavano), il principe di Galles, il re del Portogallo, Alfonso XIII di Spagna, la regina Maria di Romania. Ma sul cosiddetto «Proust du Ritz» non voglio dilungarmi. Ti dirò soltanto che ieri guardavo dalla piazza i balconi dell’albergo, chiedendomi da quale di essi lo scrittore avesse assistito, nella tarda sera del 27 luglio ’17, alla prima incursione dei dirigibili tedeschi su Parigi. «Sono rimasto più di un’ora», scriverà poi a un’amica, «ad osservare l’affascinante Apocalisse». Quella sera pranzava con la principessa Soutzo e Paul Morand, la principessa Murat e i conti de Beaumont. Cominciava ad essere vistosamente «mal soigné». E forse ricordi come lo descrisse Harold Nicolson, che lo incontrava spesso nel ’19, quando le delegazioni dei vincitori alla Conferenza di Versailles abitavano in quest’albergo: «Pallido, mal rasato, un sospetto di poca pulizia. E in più, very hebrew». Ma torniamo alla mia giornata al Ritz. Sono le sei e mezza del pomeriggio, i due bar del lato Cambon hanno già aperto, ma prima d’andarci mi aggiro tra i salotti di fianco alla galleria Vendôme (l’albergo non ha lobby, perché César Ritz voleva evitare che vi s’accampassero «personaggi indesiderabili»). Anche qui, quel che vedo non è allegro. Piccoli gruppi di tre o quattro persone - penne e cataloghi alla mano, telefonino all’orecchio - trattano acquisti e vendite come nelle lobbies degli Hilton, Marriot o Méridien di mezzo mondo. Mentre in questi stessi salotti, un tempo, s’era fatta la storia. Con Edoardo VII, per esempio, venuto in incognito nel ’907 a tessere, con i buoni uffici del marchese di Breteuil, la tela dell’Entente cordiale. Dalla porta girevole, intanto, entrano uomini e donne stracarichi di pacchi e pacchetti: è il ritorno dallo shopping. Gli ospiti del Ritz hanno condotto le loro razzie tutt’attorno all’albergo, tra il Faubourg St. Honoré, rue de la Paix, rue de Castiglione, e i nomi impressi sui pacchi non te li dico perché mi danno la nausea, ma certo li immagini: stilisti-spazzatura italiani e francesi, pelletterie un tempo geniali ma adesso involgarite e truffaldine, losche gioiellerie. Le vetrine che vent’anni fa erano ancora incantevoli, Chanel, Lanvin, Rochas, Schiaparelli, sono o scomparse o piene di stracci ripugnanti. Scomparso da poco è anche Rhodes & Brousse, uno dei cravattai più amati della mia giovinezza. Sicché decente, anche se molto americanizzato, resta ormai il solo «Charvet». Al Bar Hemingway. Alle sette in punto imbocco i cento metri della galleria Cambon, e tre minuti dopo sono su uno sgabello del Bar Hemingway. Beninteso, mi sei subito venuto in mente. Ho ricordato quell’inverno tra ’58 e ’59, quando venivamo spesso al bar del Ritz com’era allora: il bar di Tenera è la notte, di Babilonia rivisitata, del Filo del rasoio, con dietro il banco ancora Georges Scheuer. Che emozione - rammenti? - al pensiero che lo stesso Georges cui ordinavamo i nostri Martini ne aveva mescolati trent’anni prima per Scott Fitzgerald, Somerset Maugham e Cole Porter. Quello che adesso si chiama Bar Hemingway era allora il Petit bar, di fronte al bar vero e proprio. Al banco c’era un barman indimenticabile, Bertin: piccoli occhiali, colletto inamidato, gesti e sorrisi da cardiologo. Ma il Petit cominciava a decadere, era quasi sempre vuoto, anche se una sera vi vedemmo arrivare Coco Chanel con indosso uno dei suoi stupendi cappotti neri, che si fermò a bere una spremuta d’arancio chiacchierando fitto con Bertin (Mademoiselle aveva un appartamento al Ritz, ma vi entrava e usciva sempre da rue Cambon, dove c’era il suo atelier). A quel tempo avevamo già letto i diari di Ernst Junger, e la vista di Mademoiselle ci portò a rievocare il Ritz durante l’occupazione tedesca. Gli amori di Coco Chanel col maggiore Hans Gunther Dinklage, i soggiorni di Goering nella suite reale, ma soprattutto le colazioni e i pranzi di Junger nel ristorante dell’albergo: con Carl Schmitt, con gli altri ufficiali del Propagandastaffel, con gli artisti e intellettuali del versante «kollabo»: Sacha Guitry, Drieu la Rochelle, Arletty, Cocteau, Jouhandeau, de Jouvenel e molti altri. I due bar furono chiusi verso i primi Settanta, e a riaprirli è stato il nuovo proprietario dell’hotel, Al-Fayed, una decina d’anni fa. Prima l’Hemingway, poi l’altro che adesso si chiama Ritz Club. E il gusto dell’egiziano trapela infatti inequivocabile da ambedue gli arredi. Il Ritz Club è orrido di velluti crèmisi e poltroncine Giorgio III. L’Hemingway è una bomboniera di legni chiari con una luce gelida da buffet della stazione, le pareti tappezzate delle solite, stucchevoli foto dello scrittore. Insomma brutto: anche se per la verità un po’ meno ridicolo di come mi parve nel ’94, appena inaugurato quale «bar littéraire», quando oltre a quelle di Hemingway c’erano foto di Greene, Pound, Orwell e Sartre, tutte persone di cui era nota l’insofferenza per i grandi alberghi. Oggi i dèpliants del Ritz non parlano più di «bar littéraire», ed esaltano invece la specialità della casa, un cocktail che ha per base un Armagnac centenario: una prevedibile porcheria a 90 euro il bicchiere. Ieri sera c’era parecchia gente, in parte venuta da fuori. Qualcuno si precipitava appena entrato a sbaciucchiare il barman americano, tale Colin Field, ciò che ai nostri tempi sarebbe bastato per farci cambiare immediatamente bar. Bevevo il mio Martini, e mi guardavo attorno in cerca d’una fisionomia, d’un taglio d’abito, d’un modo di stare al bar non troppo stridenti rispetto alla storia del Ritz. E due persone che mi piacevano le ho trovate. Una coppia spagnola insieme composta e rilassata, di buonissimo umore dinanzi al secondo bicchiere di champagne. Mi chiedevo perché fossero tanto diversi dal resto degli avventori, in blu lui e lei in nero, lei così ben pettinata, lui così cortese con i camerieri. Poi ho capito: era una questione d’età. Tutt’e due in cammino verso gli ottanta, qualcosa era rimasto addosso, ai due spagnoli, dall’aver visto com’era il mondo quando c’era ancora il «monde». Come dire, caro G., che il «decorum» è ormai soltanto dei «morituri». Sandro Viola