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 2005  gennaio 09 Domenica calendario

Storia dei Signoracci

Caronte ha il volto pietoso di Cesare Signoracci, il Giornale, domenica 9 gennaio 2005 Da quattro generazioni i Signoracci si occupano solo dei morti. Il decano è Cesare, che ha ereditato dal papà Arnaldo il segreto per consegnare all’immortalità terrena i pontefici. Fu suo padre a imbalsamare Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo I. Su Papa Roncalli lavorò talmente bene che quando il 16 gennaio 2001 s’è proceduto alla ricognizione canonica della salma i prelati presenti nelle Grotte Vaticane hanno gridato al miracolo: a quasi 38 anni dalla sepoltura «il volto del beato appariva integro, con lineamenti tali da richiamarne immediatamente la fisionomia familiare», attesta la perizia. Ma questi sono eventi che capitano appunto a ogni morte di papa. Da mezzo secolo per Cesare Signoracci la quotidianità è rappresentata più tristemente da omicidi, suicidi, incidenti, annegamenti, overdose, decessi naturali in luogo pubblico. Da lui arrivano tutti quelli che non muoiono nel loro letto o in ospedale assistiti dai propri cari. Quattro al giorno, come minimo. Tragedie che interessano la magistratura: nel corridoio, in attesa che si liberi una sala settoria per l’autopsia, trovo i corpi senza vita di un ragazzo di 22 anni che s’è sparato una fucilata in faccia alla maniera di Hemingway e di una donna di 38 investita da un’auto, due manichini disarticolati che suscitano la stessa compassione. «Arrivati la notte scorsa, registrati stamattina», scuote la testa, e non serve dire altro. Chiuse nelle 44 celle frigorifere vi sono salme che attendono da mesi un alias, un’identità, oppure un nullaosta per l’ultimo viaggio verso il camposanto. Quando prese a tenere questa contabilità, suo nonno e suo padre avevano già segnato sul librone 31.000 nominativi. Oggi è a 90.910. In mezzo a questi 60.000 fantasmi che si confondono nella mente, Signoracci non può dimenticare i protagonisti della storia contemporanea che il destino ha depositato fra le sue braccia amorevoli: i 19 carabinieri morti nell’attentato di Nassiriya; Maria Grazia Cutuli, l’inviata del Corriere assassinata in Afghanistan; Marta Russo, la studentessa universitaria fulminata da un proiettile vagante; Simonetta Cesaroni, la vittima del giallo di via Poma; il piccolo Alfredino Rampi, caduto nel pozzo a Vermicino; i tre figlioletti sterminati dal padre Tullio Brigida. E, prima di loro, Aldo Moro con la maglietta di lana beige intrisa di sangue e il pollice sinistro trapassato da uno degli 11 proiettili che lo statista dc istintivamente cercò di fermare portandosi la mano al cuore; il pm Vittorio Occorsio; il regista Pier Paolo Pasolini; il marchese Camillo Casati Stampa, la moglie Anna e il giovane amante Massimo Minorenti rimasti intrappolati nel perverso triangolo che avevano creato di comune accordo; Luciano Re Cecconi, il calciatore della Lazio freddato da un orefice nel cui negozio aveva fatto irruzione simulando per scherzo una rapina; la fotomodella tedesca Christa Wanninger, finita a coltellate dalle parti di via Veneto ai tempi della dolce vita. Ufficialmente Cesare Signoracci, 66 anni fra un mese, col 2004 è andato in pensione. In realtà ogni mattina alle 5.30 continua a uscire dal mondo dei meno per entrare nel mondo dei più. Il suo Ade è questo: piazzale del Verano, civico 34. L’obitorio comunale di Roma - «il nostro amore», è così che lo chiama - annesso all’Istituto di medicina legale dell’Università La Sapienza, dove fino al marzo scorso è stato capotecnico di patologia forense alle dipendenze del professor Giancarlo Umani Ronchi. Ci va per aiutare il cugino Massimo, l’unico dei Signoracci rimasto in servizio. Sono i cosiddetti preparatori. Dissezionano, cuciono, ricompongono, lavano, vestono, sbarbano, truccano, incipriano. Purtroppo la quinta generazione ha tradito: «Mio figlio Arnaldo a 34 anni ha preferito aprirsi una cartolibreria. L’avevo portato con me fin da quando ne aveva 12. Lo so, non si sarebbe potuto a quell’età, ma è così che noi Signoracci abbiamo sempre cominciato a prendere confidenza con i cadaveri. Oggi ci vuole la laurea breve, fino al 2002 bastava la terza media per essere ammessi al concorso. Peccato. Proprio adesso che s’era imparato a fa’ l’autopsie». Intercala pittoresche espressioni in dialetto, Cesare, computista commerciale mancato («mollai al secondo anno») dal tratto aristocratico e dalla risata vellutata. Né potrebbe essere altrimenti: romano de Roma, è nato come tutti i Signoracci sull’Isola Tiberina, porta a porta con la trattoria della Sora Lella, la sorella di Aldo Fabrizi. Ci tiene a portarmi a visitare la borgata in mezzo al Tevere. «In questa cantina lavorava mi’ nonno, Cesare come me. Sua moglie Assunta, un donnone che aveva messo al mondo 11 figli, quasi tutti morti in tenera età, aderiva alla Confraternita dei Sacconi Rossi e lo aiutava a preparare le salme. Bravissima. Usando le ossa riesumate costruì un lampadario che fu donato al Vaticano. Me li ricordo bene, i Sacconi, col cappuccio vermiglio in testa. Quando portavano un cadavere, noi ragazzini scappavamo. Mio bisnonno Giovanni aveva cominciato alla morgue dell’isola nel 1870. Lo chiamavano Er Vetrinone, perché consentiva ai parenti di vedere i defunti soltanto attraverso una grande vetrata. Mio papà Arnaldo invece fu soprannominato Er Tarzan der Tevere. Era un marcantonio alto un metro e 92 che si tuffava fra i gorghi per recuperare gli aspiranti suicidi. Credo fosse molto forte perché da piccolo aveva mangiato migliaia di pillole colorate raccolte sul greto: le medicine scadute che gli infermieri gettavano nel fiume dalle finestre dell’ospedale Fatebenefratelli». Come e con chi ha cominciato? «Nel ’56, col professor Cesare Gerin, un luminare dell’anatomia patologica che fu direttore dell’Istituto di medicina legale dal ’38 all’88. Triestino, severissimo. Non l’ho mai visto impugnare il bisturi. Lavorava con la lente d’ingrandimento. Diceva agli studenti: ”Lasciate fare a chi sa fare”». Cioè a lei. «Ogni tanto si lasciava andare: ”Cesarino, quando sarà il momento, voglio che mi prepari come sei capace tu, mi raccomando”». Quale fu il suo primo incontro con la morte? «A 14 anni, con Wilma Montesi, la ragazza dello scandalo trovata sulla spiaggia di Torvajanica. Ricordo che il funerale si svolse di domenica. Ma il vero impatto fu con Antonietta Longo, rimasta nelle cronache come la decapitata del lago». Il cadavere fu rinvenuto a Castelgandolfo, se non sbaglio. «Esatto. Senza la testa, che non venne mai ritrovata. Io portavo tutti i giorni la gamella con i bucatini a papà, a viale dell’Università, dove persino il tavolo da pranzo era di marmo. L’inserviente Beppe Delle Piane, un analfabeta, mi mostrò la Longo già autopticata: un tronchetto di 35 centimetri. Si prese da mio padre una di quelle baccagliate...». Suo papà era molto severo? «Carismatico, direi. Sollevava di peso una povera donna che aveva perduto il marito o un figlio e se la portava davanti alla vasca dei pesci che mio nonno aveva costruito nel giardino dell’obitorio e lì, con parole che io non ho mai imparato, riusciva a farla smettere di piangere. I parenti dei defunti tornavano anche a distanza di anni a ringraziarlo, diventavano amici». Una dote rara. «Mi ha insegnato a temere i vivi, non i morti. Aveva visto tutte le atrocità della guerra. Deve pensare che a ogni rappresaglia nazista doveva presenziare alla fucilazione e poi recuperare i cadaveri con l’aiuto del cugino, Scifoni. Fu papà a occuparsi di ricomporre i resti dei 335 ostaggi massacrati alle Fosse Ardeatine e scoperti solo alla Liberazione. Era uno specialista. Prima che arrivassero dall’America la formalina, i ceroni e le pomate sintetiche coloranti, è sempre riuscito a occultare sui visi anche le lesioni più profonde modellando la cera delle candele». Che requisiti servono per questo lavoro? «Uno solo: la pietà». Che rapporti ha il resto del mondo con voi? «Ottimi. Perché siamo utili. Mi chiamano nelle case alle tre di notte? Vado. I parenti di Petroselli, l’ex sindaco di Roma, di Re Cecconi, del piccolo Alfredino Rampi mi chiedono di fare un calco in gesso al viso del loro caro prima di chiudere la bara? Lo faccio». La morte è davvero ’a livella della poesia di Totò, rende gli uomini tutti uguali? «Sì. Muorto si’ tu e muorto so’ pur’io, ognuno comme a ’n’ato è tale e qquale». Anche i papi? «Uguali. Sempre sotto vanno». Perché fu affidata ai Signoracci l’imbalsamazione dei pontefici defunti? «Fino a Pio XII mi risulta che il Vaticano si rivolgesse a un imbalsamatore d’oltreoceano. Gli americani sono professionisti formidabili, ma hanno una tecnica inconcepibile per un papa: impagliano le salme». Invece voi? «Mio padre, aiutato dai fratelli Ernesto e Renato, iniettava nelle arterie una soluzione a base di formalina. Poi rimaneva a vegliare le spoglie mortali del pontefice 24 ore su 24. Con Giovanni XXIII il risultato raggiunto fu eccellente: alla fine il corpo risultò marmorizzato. L’importante è agire al più presto». Una fretta che nel caso di Papa Luciani è apparsa sospetta. S’è scritto che il segretario di Stato Jean Villot svegliò suo padre all’alba per cominciare subito l’imbalsamazione, prim’ancora che la salma fosse vista da un medico. «Di questo mio papà non ha mai parlato. Rispettava il segreto professionale anche in famiglia. Ricordo che mi telefonò verso le 6.30 ordinandomi di preparargli la valigetta con tutto l’occorrente: camici, guanti, pinze, infusore...». Secondo David Yallop, autore del libro-inchiesta In nome di Dio, questa sarebbe la prova che Giovanni Paolo I fu assassinato e che i Signoracci, senza saperlo, avrebbero cancellato dal cadavere le tracce dell’avvelenamento. «Frescacce. Anche a distanza di tempo un’autopsia avrebbe svelato come e perché morì Papa Luciani». Avete imbalsamato altri personaggi? «Antonio Segni, l’ex presidente della Repubblica, e Alberto Sordi. Non è una pratica molto richiesta». Ha idea di chi fece uscire dall’obitorio le foto della salma di Moro rattrappita sul tavolo settorio, che Giovanni Valentini, allora direttore dell’Europeo, schiaffò in copertina? «Non mi faccia parlare di questa brutta storia. Ci rimasi malissimo. Purtroppo quel giorno all’obitorio ci saranno state una ventina di persone a fare indagini e a scattare foto. Assistetti anche a un tira e molla fra carabinieri e polizia. Una scena molto triste». Le è mai capitato di vedersi arrivare alla morgue un amico o un conoscente? «Anche parenti, purtroppo: un fratello e una sorella di mia madre, uno vittima di un incidente stradale e l’altra avvelenata dall’ossido di carbonio. Allo zio Sergio m’è pure toccato fare l’autopsia». Se il morto è un bimbo che sentimenti prova? « sempre stato un dramma per noi Signoracci. Non ne ho mai mandato via uno senza prima avergli elargito un’ultima carezza sui capelli. Papà li adagiava nella cassa come se fossero figli suoi. Il trauma più grande è stato il recupero di Alfredino, congelato in un blocco di azoto liquido a 196 gradi sotto zero. Mi calarono a 36 metri di profondità dentro un bidone. Vedevo solo i piedini. A un certo punto la bara di ghiaccio, 80 chili di peso, mi scivolò addosso. Riuscii a evitare, non so come, che mi tranciasse una gamba. Tornato in superficie, cominciai a piangere, piangere, non riuscivo più a smettere. Non m’era mai capitato prima d’allora. Ho lavorato due giorni senza sosta per restituire quella bellissima creatura il più integra possibile alla sua mamma». Come parlare della morte ai bambini? Portarli sì o no in una camera ardente? «Né parlargliene né mostrargliela. Sono contrarissimo. Neanche il più fine psicologo sa quali traumi possono provocare situazioni simili prima della maggiore età. E lo dico anche ai signori della tv: fatela finita con la sequela di morti ammazzati che propinate a tutte le ore. Abbiate rispetto! Sa qual è il paradosso? che le persone vedono tutti questi cadaveri in televisione però hanno paura dei morti veri. Non vengono a salutarli all’obitorio: li aspettano chiusi nei feretri in chiesa. Mi sembra che anche il dolore, un tempo, fosse più autentico. I cortei funebri a piedi non finivano mai. Al loro passaggio Roma si fermava, la gente si toglieva il cappello, i negozi abbassavano le serrande. Oggi mi capita di andare a funerali dove la gente parla di calcio». Qual è l’aspetto più brutto del suo mestiere? «Le povere salme che nessuno reclama e che aspettano sepoltura anche per un anno dentro una cella frigorifera. Ho scritto al sindaco Veltroni per ricordargli che l’obitorio non deve diventare un cimitero. Ha avuto risposta lei? Alla fine, quando giunge il nullaosta, mi vedo arrivare i parenti, per lo più immigrati dall’Est, con la sportina degli indumenti in mano. Spendono tutto quello che hanno per comprare al morto un vestito nuovo e mi chiedono di metterglielo. Ma io che cosa posso fargli vedere a parecchi mesi dal decesso?». E l’aspetto più bello? Ammesso che ci sia. «La riconoscenza. Davanti alla bara sento i parenti sussurrarsi l’un l’altro: ”Sembra che dorma”. Quella è la miglior ricompensa. Vuol dire che ho lavorato bene». Dev’essere dura stare in un posto così. «Così come? Si piange e si ride come dappertutto. A volte i carabinieri scortano un detenuto con gli schiavettoni ai polsi a vedere per l’ultima volta la mamma defunta, mi sospingono dentro da quella porta un ragazzo che s’è ammazzato con l’eroina o uno che s’è impiccato per un brutto voto a scuola. Allora provo quel ”male di dentro” di cui mi parlava mio nonno quand’ero bambino e che non capivo cosa fosse. Ma poi capita pure, com’è avvenuto 12 anni fa, che mi portino un broccolo raccolto in un cassonetto e scambiato per un feto o una mascella d’asino attribuita a un cristiano. E allora sorrido, tiro il fiato». Le è mai venuto da dire: ma chi me l’ha fatto fare? «No. un mestiere che rifarei subito. Mi ha dato tante soddisfazioni. Escluse quelle economiche». Quanto guadagnava? «Dopo 48 anni di onorata carriera, come capotecnico a fine mese il Comune di Roma mi metteva in mano 1.600 euro. E ho sempre lavorato sette giorni su sette, esposto a tutte le infezioni di questo mondo, dall’Aids alle epatiti». Fa molta fatica un preparatore d’obitorio a trovarsi moglie? «Al contrario. Rossana l’ho sposata che avevo 31 anni, ma prima ne ho conosciute più d’una affascinata dal mio lavoro». Affascinata in che senso? «I Signoracci vengono considerati maestri nel loro ramo. Siamo unici in Europa». Uscito dalla morgue riesce ancora a scherzare, a ritrovare la sua serenità? «Sì, perché voglio a tutti i costi dimenticarmi la morte, non come tanti giovani che, in auto o con la siringa, se la vanno a cercare. Tre volte la settimana mi trovo con alcuni amici a suonare in un ristorante di Trastevere, La Torre. Fisarmonica, mandolino e chitarra. Il mio cavallo di battaglia è Com’è bello fa’ l’amore quanno è sera. Una volta è venuto a cena il ministro Maroni, ci ha chiesto di prestargli la fisarmonica e ha suonato con noi». Che cosa sogna la notte? «Sogno spesso l’obitorio, i morti. Mi chiedo perché e non riesco a darmi risposta. Dovrei interpellare uno strizzacervelli. Sogno anche papà. Quando il 1° marzo 1977 se ne andò in pensione, dopo 54 anni passati in queste stanze, disse: ”La morgue come l’ho conosciuta io è finita per sempre. Mi resta una spina nel cuore e quella spina sei tu, che resti qui a soffrire”. Lui era solito stendere una benda sul viso prima dell’autopsia e cospargere la salma di un’acqua aromatica che acquistava da un egiziano. Piccoli gesti di umanità. Adesso...». Qualcuno che torna indietro, che si sveglia, l’ha mai visto? «No, mai. In giro si sentono raccontare un sacco di fregnacce: le salme trovate capovolte nella bara all’esumazione, la barba che cresce ancora per qualche giorno... Tutte balle. In 130 anni d’attività a nessun Signoracci è mai capitato di vedere nulla del genere». E persone che si fanno cremare per il terrore di ridestarsi dentro un loculo ne ha conosciute? «Neppure. Mio papà mi chiese d’essere cremato ma solo perché voleva stare per sempre nella stessa tomba della moglie Olga, deceduta vent’anni prima. ”La terra serve ai vivi, non ai morti”, diceva». Dopo aver visto 60.000 salme, dal volto di una persona viva riesce a intuire i segni premonitori della fine? «Capitava soprattutto a mio padre, anche quando non c’erano di mezzo malattie. Un giorno portarono all’obitorio una donna. Poco dopo giunse a vederla il marito. Non avevano figli. Disse solo: ”Dio ha voluto così”. Ringraziò, salutò, uscì. Mio padre fu preso da una forte inquietudine. ”Quest’uomo me mette pensiero. Troppo calmo. Nun me piace”, borbottò. Il tempo di uscire a rincorrerlo e s’udì uno stridìo di freni seguito da un botto: quell’infelice s’era buttato sotto il tram numero 10». Che cosa prova quando entra in un cimitero? «Mi trovo a casa mia». Capisco. «Molti anni fa, non ero ancora sposato, mio padre mi svegliò nel cuore della notte: ”Serve la tua opera”. Poco dopo passò a prendermi il capo della squadra mobile per portarmi a Rieti, dove un bancario, tormentato dalla vergogna per un ammanco di cassa, anziché restituire i soldi aveva sterminato la famiglia: moglie e tre figli. Ai più piccoli, 12 e 18 mesi, aveva staccato la testa a colpi di batticarne, il terzo era andato a prenderselo all’uscita di scuola, l’aveva portato sul Terminillo, ubriacato e fatto fuori. Dopodiché, anziché suicidarsi, questo disgraziato s’era costituito. Trasferimmo le salme nella cella mortuaria del cimitero quando ormai scendeva la sera. E lì sentii come mio dovere non abbandonarle. Tutti gli altri se la filarono, lasciandomi solo. La ricomposizione durò fino all’indomani. Ogni tanto uscivo a prendere aria, mi sedevo fra le tombe e guardavo il cielo stellato. Lei non sa quanta pace ho trovato io quella notte». Ha paura di morire? «Senta, a dicembre del 2003 ho avuto un infarto. M’hanno fatto l’angioplastica. Nel letto d’ospedale pensavo: forse non mi salvo. Mi sono messo sereno. Che cambia se me ne vado un anno prima o un anno dopo? La morte non mi spaventa: quando arriva lei, non ci siamo più noi. Meno si ha paura della morte e più si ama la vita». C’è qualcosa dopo? «Niente. Secondo me nun ce sta gnente. tutto finito». Stefano Lorenzetto