Pino Corrias la Repubblica, 07/01/2005, 7 gennaio 2005
Emilio Villa, il clandestino che aveva tasche piene di poesie, la Repubblica, 07/01/2005 Emilio Villa dormiva per terra avvolto in fogli di giornale
Emilio Villa, il clandestino che aveva tasche piene di poesie, la Repubblica, 07/01/2005 Emilio Villa dormiva per terra avvolto in fogli di giornale. Traduceva dall’assiro. Si pettinava, a metà cena, con un pettinino azzurro. Sputava nel minestrone prima di mangiarlo. Era amato dalle contesse. Cucinava trippe. Campava vendendosi un Consagra o un brano ritradotto del Qohelet. Fondava numeri zero. E dal molto che fece, scivolò dentro al «caldo rumore dei tempi vuoti». Vertiginosa fu la sua avventura, per il suo pieno di parole, segni, sguardo, sistematicamente svuotati fino al silenzio della malattia, e al nulla degli addii, e alla (scampata) distruzione delle sue carte. Lui che pure camminò dentro al secondo Novecento italiano, poeta di ermetica purezza, saggista di strabiliante erudizione, cacciatore di artisti, profeta di tutte le avanguardie tra gli atelier di Brera, a Milano, e le soffitte di Piazza del Popolo, a Roma, amico di Duchamp, Breton, Matta, esegeta di Alberto Burri, Lucio Fontana, Piero Manzoni, traduttore della Bibbia e dell’Odissea, viaggiatore senza spiccioli, notturno, eccessivo, innamorato di donne innamorate, che visse tra migliaia di foglietti, cancellandosi. La sua fama ha avuto parecchie ridondanze, ma sempre in memorie aleatorie, in carte di artisti introvabili, in testimonianze d’occasione, in ricordi quasi del tutto cancellati. Mai un racconto sistematico, salvo qualche pagina che gli dedicò Giampiero Mughini. Mai la trama fitta del suo passaggio. Se ne incarica adesso Aldo Tagliaferri, che gli è stato amico e allievo per una quarantina d’anni, con Il clandestino (Vita e opere di Emilio Villa, DeriveApprodi, pagg. 207, euro 14), biografia accurata e persino troppo lineare, cominciando dallo specchio del titolo, lui davvero clandestino per indole, stile, carattere, raccontandoci il filo e i nodi della sua vita, ma poi scordandosi di restituirci l’avventurosa matassa che fu. Avventura che comincia nel 1914, nebbia di Affori e sterpaglia milanese, padre in eclisse definitiva, madre portinaia, infanzia solitaria e poetica fin dalla profezia capovolta del maestro elementare: «Tu non sarai mai buono a far stare in piedi una frase». Villa frequenta per un paio di anni il liceo Parini, poi il seminario. Parla correntemente il milanese e il latino. Parla il francese, il tedesco e l’inglese. Studia il greco antico, l’ebraico, il fenicio, il caldeo, segue i corsi di assirologia al Pontificio Istituto Biblico. Ammira D’Annunzio con «tutto il suo carico di gloria e di tristezza». Legge Nietzsche, ma scivola dentro alla tonante depressione di Cioran con la sua «disgrazia di essere nato». Studia Leonardo, annota la più bella tra le sue lezioni, quella che dice: «Ogni cosa in natura si fa per la sua linea più breve». Ma naturalmente lui dispera di imboccarla e viaggia al contrario. Gli rotola addosso la guerra. Diserta, finisce in un campo di prigionia in Olanda, muore di fame, torna in Italia arruolato a forza, scappa, si fa (per l’appunto) clandestino a Milano dove «acquisisce uno stile di vita che gli diventa presto congeniale: compare, se ne va, d’improvviso ricompare dopo assenze anche lunghe e sempre fa perdere le proprie tracce». A Milano incontra Lucio Fontana. Lo colloca ai vertici della sua idea di arte, con Rothko e Pollock, il vuoto e il pieno della vita che lo attraggono e lo consumano. Viaggia in Brasile, vive svendendo tele e disegni di Perilli, Turcato, Dorazio. Torna, scopre Mimmo Rotella, scrive di Nuvolo, Cagli, Capogrossi. Disintegra il realismo socialista. Quando si trasferisce a Roma vede i sacchi di Burri e li illumina con il suo inchiostro: «Intendevamo i sacchi e le muffe quali parvenze di una stratificazione del mondo affiorato, o come si direbbe ”conscio” (...) Erano i materiali più prossimi e analoghi alla suscettibilità e incertezza del deserto mondano, della assurdità totale e incoerenza della storia: i materiali sorpresi nella crisi del compianto». Abita in case precarie, soffitte, atelier prestati, e qualche volta dorme sulle panchine. Si occupa di tutto, dal teatro ebraico, alla pop art, dal greco antico, alla poesia dei Novissimi. Quando Roberto Bazlen, consulente di Einaudi, lo incontra in via Margutta a Roma, anno 1954, resta affascinato dalla sua erudizione eccentrica e inattuale. Legge i brani che Villa sta traducendo dalla Bibbia. Gli offre il primo (e unico) contratto per continuare a tradurla e consentirgli di campare lungo i perigliosi Anni Cinquanta. è, secondo testimonianze, «incredibilmente colto, disordinato e sporco». è piccolo, tozzo, ma con voce che incanta. Ha le tasche piene di poesie, brani tradotti, appunti, illuminazioni. I fogli finiscono dentro a scatole e valigie. Le valigie viaggiano di casa in casa. Dopo la Bibbia traduce l’Odissea per l’editore Guanda. Scopre i Finnegans Wake di Joyce e dimentica Carlo Emilio Gadda. Ai bordi delle sue disordinate traiettorie nasce tutta la nuova arte italiana che archivia metafisica e realismo, reinventa il pop, asseconda l’astratto, approfondisce il concettuale. Villa è profeta e comparsa di quasi ogni inaugurazione che conti. Scrive presentazioni, cataloghi, ammira Mario Schifano, Lo Savio, Fabio Mauri. Tra i giovani predilige Piero Manzoni, «giovane discendente di Duchamp», con i suoi batuffoli di cotone, la sua merda d’artista inscatolata, i suoi bianchi poetici. Manzoni un giorno di aprile 1961, lo firma come «opera d’arte vivente». Villa lo ringrazia in milanese, «brau te me piaset». Nanni Balestrini che all’epoca dirige la Feltrinelli e pure lo ammira come poeta («grande abbastanza da affiancarsi a Montale») gli pubblica Attributi dell’arte odierna 1947/1967 che rimarrà la sua unica raccolta non clandestina di scritti, anche se oggi introvabile. Cancellandosi e disperdendosi, Villa accresce lo stupore degli altri e la propria solitudine. «Uomo esule - scrive Tagliaferri - di un mondo cattivo del quale non bisogna essere mai partecipi». Uomo senza alcun rispetto né interesse per le cose che abbandona appena lo ingombrano, come un armadio con le ante dipinte da Nuvolo, come una Prinz mai usata, come una scultura di Lo Savio, come una intera cassa di manoscritti. «Persino la Pietà di Michelangelo presa a martellate lo lasciò del tutto indifferente». La sua vitalità (cibo, scrittura, incanto per il teatro di Carmelo Bene) viaggia verso un orizzonte perfettamente nero. Non c’è sapere trasmissibile. Non ci sono parole per spiegare. Non c’è soluzione all’enigma. Non c’è uscita dal labirinto. Scrive: «Guardavo, scrutavo l’orecchio di mia madre, quello di mio fratello... e sempre la stessa cosa: vedevo il labirinto, il canale che portava a un punto buio, e in fondo deve esserci l’abisso, un abisso grande come il pozzo in campagna, come certi strapiombi del sogno (...) Quella era forse la primissima idea del labirinto di cui l’uomo è al tempo medesimo architetto e prigioniero, ideatore e vittima». Poi venne l’ictus che gli tolse per sempre la parola, anno 1986, e la paralisi che gli tolse la scrittura, già abbandonata nell’ultima minuta destinata a un amico: «Io mi sono duramente dissociato dalla poesia, quindi perdonami, e non mi chiedere più niente». Il niente lo accompagnò per altri 17 anni, fino all’ultimo nulla del funerale, gennaio 2003, cimitero toscano di Sant’Angelo, solo tre amici presenti. Uno dei tre, Gianfranco Baruchello, da un anno va riunificando tutto quello che il vento della vita ha disperso. Emilio Villa, adesso, sta su uno scaffale, dentro a scatole di scarpe, cassette di vino, raccoglitori di cartone: buste, lettere, poesie, saggi, minute, traduzioni, il progetto di un dizionario mitologico, testi in inglese, greco, spagnolo, latino. E sta dentro a questo libro di Tagliaferri. Come scrisse Villa, profetico, molto prima di tutti i silenzi che adottò: «Col vostro aiuto conto di poter far bene. State attenti a tutto. Bisogna aprire, aprire». E poi andarsene. Pino Corrias