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 2005  giugno 07 Martedì calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 23 GENNAIO 2006

Nel 2000 la Nissan cercava uno stabilimento in Europa per produrre un nuovo modello. Oltre all’Italia (in quei giorni si parlava della chiusura degli impianti Fiat di Arese), si erano fatte avanti Francia, Spagna e Gran Bretagna. I giapponesi posero però una condizione: non volevano sottostare ai contratti collettivi nazionali di categoria, ma firmare accordi aziendali che partivano da minimi più bassi per poi crescere, nel tempo, in base alla produttività. I nostri sindacati respinsero l’offerta, quelli inglesi l’accettarono, la Nissan andò a Sunderland. [1]

Pietro Ichino (uno degli studiosi più noti di diritto del lavoro) ha scritto sull’ultimo numero della rivista ”Atlantide” che se Cisl e Uil avessero accettato l’accordo aziendale proposto dai nipponici (con la Fiom-Cgil c’è poco da immaginare) nel giro di pochi mesi operai e sindacati avrebbero potuto intentare cause per rivendicare il rispetto dei minimi sindacali. E i tribunali avrebbero dato loro ragione, vanificando l’accordo separato con la Nissan. In base al nostro diritto, infatti, i minimi fissati dal contratto collettivo nazionale costituiscono il parametro cui deve essere commisurata la ”giusta retribuzione” alla quale ogni lavoratore ha diritto (articolo 36 della Costituzione). Conclusione: la Gran Bretagna negli ultimi anni è riuscita ad attirare il sessanta per cento dei capitali investiti nel settore automobilistico nei Paesi dell’Unione europea, ad Arese (area particolarmente attraente: maestranze esperte, Regione impegnata ad attivare le necessarie infrastrutture, eccellenza di università e politecnico ecc.) i lavoratori restano anni in cassa integrazione sperando in un intervento pubblico. [1]

Questa volta ”gli altri” non sono né la Cina né l´India. Francia, Spagna, Germania e Gran Bretagna, piuttosto. Montezemolo: «Lì stanno innovando, ciascuno seguendo una propria via: chi punta su una diversa modulazione dell’orario di lavoro, chi su una maggiore flessibilità del lavoro in entrata o in uscita. In tutti i casi l’obiettivo è l’aumento della competitività e del tasso di produttività. Insomma gli altri si stanno muovendo, mentre noi stiamo fermi». Dal 2000 a oggi la produttività del lavoro nel settore dell’industria in senso stretto è diminuita in Italia dell’1,4 per cento, mentre è cresciuta del 10 in Germania e del 12 in Francia. [2]

In Italia la contrattazione nel mercato del lavoro è regolata dallo storico accordo del 23 luglio ’93, raggiunto dopo due anni di trattative tra Confindustria e sindacati col contributo determinante di Ciampi, allora presidente del Consiglio. [3] Quegli accordi prevedevano due livelli, uno nazionale attraverso il quale doveva essere realizzata la politica dei redditi (recupero di quanto perso per colpa dell’inflazione), uno aziendale attraverso il quale i lavoratori avrebbero potuto partecipare alla ripartizione del frutto di eventuali guadagni di produttività. [4] Adesso si dice: chiusa la questione metalmeccanici (è notizia di giovedì, gli industriali hanno concesso 100 euro di aumento in cambio di maggiore flessibilità [5]) non ci sono più alibi per rinviare la discussione sulla riforma del modello contrattuale. [6] Alberto Bombassei, vicepresidente della Confindustria, responsabile per le relazioni industriali e lui stesso imprenditore metalmeccanico (i freni Brembo): «C’ero nei vari incontri che ci sono stati negli ultimi mesi tra il presidente Montezemolo e i tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil e posso testimoniare che tutti e tre, quindi anche Guglielmo Epifani, hanno sempre detto: rinnoviamo il contratto dei metalmeccanici e poi potremo aprire la trattativa sulla riforma del modello contrattuale». [7]

L’accordo, siglato dopo una tormentata gestazione durata oltre un anno, non ha risparmiato nessuno dei riti che da decenni scandiscono le grandi tornate della contrattazione collettiva nell’industria. Giuseppe Berta: «Il rush finale è avvenuto sull’onda di una drammatizzazione crescente del negoziato, che ha visto il chiudersi e il riaprirsi della trattativa, l’annuncio di nuovi scioperi e mobilitazioni dei lavoratori, persino il ritorno dei blocchi stradali a sostegno del rinnovo del contratto. Era proprio necessario questo corso degli eventi?». [5] La crescente difficoltà nel rinnovare il contratto collettivo nazionale nasce da un sovraccarico delle funzioni che gli vengono attribuite? Ichino: «Quello dei metalmeccanici, per esempio, ha la pretesa di disciplinare un’immensa categoria che comprende una ventina di settori diversissimi tra loro, dall’aziendina che produce etichette all’aerospaziale, dalle fonderie alle case di software. Come è pensabile imporre inderogabilmente a realtà produttive tanto diverse questo ”codice” che regola retribuzione e organizzazione del lavoro dall’A alla Z con centinaia di norme minuziose, in un mondo in cui tutto cambia sempre più rapidamente e in direzioni divergenti?». [8]

Il modello introdotto nel ’93 è stato utile, ma non regge più. Savino Pezzotta (Cisl): «Ora bisogna compiere uno sforzo rimettendo in sesto le relazioni industriali che hanno subito un degrado e uno sfilacciamento». Giorgio Cremaschi (Fiom): «Noi puntiamo ad uscire dall’accordo del ’93 ”da sinistra”. Pensiamo che vada realizzata una grande operazione di redistribuzione del reddito, come, peraltro, dimostra pure l’ultima indagine della Banca d’Italia. Per questo proponiamo che la produttività sia distribuita con il contratto nazionale». [9] Tonino Regazzi (Uilm): «Il modello del ’93 non funziona più né sul piano economico né su quello normativo». Enrico Marro: « bene dirlo subito, resistenze potrebbero arrivare ancora dalla Cgil, sicuramente non pronta, prima del congresso di marzo, ad affrontare la trattativa». [6]

Fra poco più di un mese c’è il congresso della Cgil, subito dopo le elezioni. Bombassei: «Se si inizia a mettere avanti il congresso e le elezioni e non so che altro, si continua a perdere tempo. Non ci sono più scuse. La competitività, il mantenimento dell’occupazione, la delocalizzazione rimangono le vere emergenze». [7] Montezemolo: «Cominciamo a lavorare. Guadagniamo tempo, così quando ci sarà il prossimo governo, quale che sia la sua maggioranza, non si partirà da zero». [2] Carlo Dell’Aringa: «L’intero sistema, e in particolare l’importante e delicata componente della contrattazione deve decisamente funzionare meglio. Questo è quanto sostengono, da tempo ormai, gli operatori più responsabili e gli esperti più attenti. E basta una semplice constatazione per dare loro ragione: l’enorme ritardo con cui importanti contratti vengono rinnovati. I tre milioni e mezzo di pubblici dipendenti, prima, e il milione e mezzo di lavoratori metalmeccanici, ora, hanno aspettato oltre un anno. Non va bene e non è giusto. Un’attesa così lunga non può essere adeguatamente ricompensata. Con la produzione che ristagna, di soldi in più da dare ai lavoratori, in termini di potere di acquisto da aggiungere a quello che con fatica riescono a mantenere, ce ne sono veramente pochi. Ma se sono pochi, si diano almeno subito». [10]

Per una parte della sinistra quel ”testo unico” negoziato a Roma ogni due o tre anni, inderogabile per l’intero settore produttivo interessato, costituisce la migliore garanzia di uguaglianza di trattamento per tutti i lavoratori, il migliore strumento della solidarietà tra i più forti e i più deboli, il migliore argine contro il diffondersi dei sindacati aziendali di comodo. Ichino: «In questa ottica, la difesa del contratto nazionale fa tutt’uno con la difesa dell’intero impianto del nostro vecchio diritto sindacale e del lavoro. Quello che Scalfari, con tanta parte della nostra sinistra, non considera è che quel diritto del lavoro, nei fatti, oggi ormai copre soltanto metà dei lavoratori suoi naturali destinatari: ne beneficiano, precisamente, 5,8 milioni di lavoratori di aziende con più di 15 dipendenti (nelle quali si applicano i diritti sindacali e l’articolo 18 dello Statuto del 1970 contro i licenziamenti) e 3,6 milioni di dipendenti pubblici. Gli altri sono 3 milioni di dipendenti di aziende che non superano la fatidica soglia dei 15, circa altrettanti lavoratori dell’economia sommersa, da uno a due milioni di falsi collaboratori autonomi, un milione di disoccupati permanenti». [11]

Di quest’altra metà della forza-lavoro italiana non si occupa nessuno. Ichino: «Non il sindacato, che la rappresenta pochissimo; non i giudici del lavoro, che non se la vedono quasi mai comparire davanti; non gli ispettori del lavoro, che chiudono uno o entrambi gli occhi per non dover chiudere intere aziende e mandare a casa schiere di persone. Se metà del tessuto produttivo del Sud non può sostenere lo standard fissato a Roma, si lascia che quella metà vegeti per decenni nella palude indecente del lavoro irregolare. questa l’uguaglianza garantita dal contratto nazionale? Al Centro Nord, se qualche altro milione di posizioni di lavoro non regge quello standard, si accetta serenamente che esse siano occupate, fuori standard, dai co.co.co., dai ”lavoratori a progetto” o dai dipendenti di cooperative più o meno genuine e altre piccole imprese appaltatrici dei servizi più ingrati. Dov’è la solidarietà tra lavoratori forti e deboli di cui parla Scalfari?». [11]

Il contratto nazionale, dice Ichino, dovrebbe essere una ”rete di sicurezza” di ultima istanza cui dare applicazione generale, ma solo fin dove e quando un sindacato serio e rappresentativo non abbia negoziato una disciplina diversa al livello aziendale o regionale. A questa proposta si oppongono anche quelli di Confindustria. Ichino: «E lo si può ben capire: l’imprenditore che applica disciplinatamente il contratto nazionale dorme sonni più tranquilli se non corre il rischio che nell’impresa concorrente si sperimentino forme nuove di organizzazione del lavoro, degli orari, di inquadramento professionale, di incentivazione. Il problema è che la concorrenza oggi non viene più soltanto dall’area coperta dal nostro contratto collettivo nazionale. Oggi, la sicurezza non va più cercata nel sonnacchioso torpore imposto e protetto dal ”testo unico” nazionale, oltretutto vecchio di trent’anni in nove decimi dei suoi contenuti, quanto piuttosto nella capacità di aprirsi all’innovazione di processo e di prodotto, sperimentando modelli nuovi di rapporto di lavoro e di relazioni sindacali in azienda, anche in competizione tra loro». [11]

L’obiettivo è ambizioso: rifondare le relazioni industriali all’interno di una sorta di patto per lo sviluppo. Roberto Mania: «In sostanza si tratta di ripetere l’esperienza del ’93, mutando gli obiettivi. Allora bisognava imbrigliare l’inflazione e la strada fu quella della moderazione salariale mentre si puntava a Maastricht; ora si deve rilanciare la crescita e ridare ossigeno alle buste paga. Bisogna fare ordine in quella fitta foresta che solo nell’industria registra 70 contratti nazionali di lavoro, semplificare le procedure e legare sempre più gli incrementi retributivi ai risultati». [3] Carla Cantone (Cgil): «Qualcuno può pensare che il declino industriale dell’Italia può essere risolto modificando le regole contrattuali? O non c’è, forse, una mancanza di politiche fiscali e industriali?». [9]

Una contrattazione più decentrata avrebbe il vantaggio di ricalcare la dinamica di trasformazione del mondo del lavoro e delle imprese, accompagnandola e stimolandola. Berta: «Certo questa soluzione non esaurirebbe i problemi della politica sindacale. Che ha bisogno del respiro che può venire soltanto da una nuova e articolata politica del lavoro. Dove riceva spazio il tema, promosso dalla Confindustria, della riduzione dello scarto fra la retribuzione diretta che i lavoratori percepiscono e gli oneri fiscali e contributivi che rendono più leggera la loro busta paga». [6] Mania: «Il ruolo del prossimo governo sarà fondamentale, anche per abbattere il cuneo fiscale. Le risorse per gli investimenti delle imprese e per retribuire meglio i lavoratori, infatti, possono arrivare anche dal taglio degli oneri contributivi e fiscali che pesano sul costo del lavoro. La riduzione di un punto percentuale decisa con l’ultima Finanziaria è un primo segnale importante per gli industriali, ma non basta. Si deve insistere: un punto all’anno per i prossimi cinque anni. Perché, per ogni 100 euro di retribuzione netta, un’impresa italiana ne paga, al netto dell’Irap, 185 contro i 159 della Spagna o i 133 della Gran Bretagna». [2]