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 2006  gennaio 20 Venerdì calendario

SCODITTI

SCODITTI Giancarlo M. G. Velletri 1939. Antropologo. «[...] figlio di un militare, si è laureato in estetica con Emilio Garroni, a Roma; ha lavorato alla redazione di Mondo Operaio negli anni Sessanta portato da Lucio Colletti; recensiva mostre e intervistava scrittori, ad esempio Moravia. Poi ha deciso di seguire un’altra strada. Si è interessato alle culture primitive e alle questioni estetiche; è andato a studiare in Inghilterra, al Darwin College di Cambridge, e in America. Ha visitato le collezioni della Nuova Guinea sparse per l’Europa. Un giorno del 1973, mentre in Italia il terrorismo era quasi al culmine della propria folle parabola, Scoditti è partito per Kitawa, una minuscola e sperduta isola della Papua-Nuova Guinea, dove non c’è traccia di bianchi. Ci è rimasto per tre anni. Perché proprio lì? ”Per via di Leach e di un altro professore, Antony Forges, della London School of Economics. Avevo visto due tavole policrome che decoravano le canoe cerimoniali delle isole Trobriand. Malinowski, il grande antropologo, le aveva fotografate, ma in bianco e nero. M’interessavo ai problemi dell’arte e dell’estetica. Sono andato là dove avrei trovato artigiani che ancora lavoravano le canoe”. Scoditti ha indagato i sistemi rappresentativi degli incisori di Kitawa, come arrivano a realizzare decorazioni astratte fondate su motivi geometrici di cui non esistono modelli, se non nella loro testa. Voleva capire come funziona la mente e la memoria degli artisti dell’isola, come trasmettono da maestro ad allievo le istruzioni e come sia possibile per loro introdurre variazioni senza alterare il modello di partenza: una ricerca su un sistema artistico rimasto immutato per millenni. La storia di questa indagine, che dura da oltre trenta anni - ha trascorso in totale circa dieci anni sull’isola - è raccontata in due libri La memoria dell’isola, il diario della sua prima visita, e Kitawa, album di lavoro e testo teorico di rara bellezza, entrambi editi da Bollati Boringhieri. La prosa di Scoditti ha evidenti qualità letterarie. [...] si considera un autodidatta? ”In un certo senso sì. Ho seguito una strada poco battuta. Anche il primo viaggio e quelli successivi me li sono finanziati da solo. Successivamente ho avuto un contributo dal Metropolitan Museum di New York e qualche piccolo finanziamento dal CNR [...]”. Se insegna etnologia in una piccola università italiana, a Urbino, lo deve a Carlo Bo, letterato originale e generoso. Tuttavia la sua università è troppo povera per dargli un finanziamento. Cosa ha fatto quei primi tre anni a Kitawa? ”Cercavo di imparare la lingua, volevo arrivare a parlare di problemi estetici con gli scultori locali. Per questo la mattina andavo nei campi con loro. Poi alla sera venivano gli incisori nella mia capanna e cercavo di apprendere”. [...] nel corso della permanenza ha sofferto diverse malattie - ulcera tropicale e malaria - che lo hanno segnato [...] Cosa si proponeva con la sua ricerca a Kitawa? ”Capire come costruiscono i loro simboli visivi. Volevo entrare nella loro mente, cercare di comprendere se e come seguissero una struttura, uno schema mentale per eseguire le incisioni. [...] Towitara, che è morto dopo la mia prima permanenza, mi ha introdotto ai segreti del suo mestiere. Distingueva tra mente e ragione: chi produce le immagini è la mente, che si raccoglie negli organi della respirazione; la ragione ha invece sede nella testa. Io volevo sapere come funzionava la sua mente e lui, curioso, mi poneva domande: Mi devi spiegare, mi diceva, perché tu hai questi oggetti, il registratore e la macchina fotografica, e noi no? Perché non li possiamo produrre? Perché non sono funzionali alla vostra cultura orale, gli rispondevo. A Kitawa non c’è la ruota e non usano arco e frecce. Catturano gli uccelli perché servono per i copricapo delle danze rituali, non per mangiarli. La loro tecnologia e la loro arte sono perfettamente modellate sulla struttura sociale, che non è gerarchica come la nostra”. Scoditti ha affrontato nei suoi libri problemi molto complessi. Lo ha fatto usando il disegno e le immagini; ha preso appunti sotto forma visiva. In questo è molto italiano. Ernst H. Gombrich, il grande studioso dell’arte, studioso della percezione, che ha scritto l’introduzione a un suo libro in inglese, era attratto da questa qualità. Le ricerche dell’antropologo di Velletri hanno confermato alcune delle sue ipotesi sul senso dell’ordine innato nell’uomo. [...] ”L’immagine visiva è più duratura delle immagini trasmesse oralmente. Ho capito che in certe sculture delle canoe si sintetizzava il testo di un mito e ho cercato di analizzare i due meccanismi, incisioni e racconto orale, le reciproche connessioni [...] In Occidente si disegna un progetto per visualizzare l’idea, per verificare se funziona, oppure no, dal punto di vista formale. A Kitawa non lo fanno; lavorano direttamente sulla tavola di legno con lo scalpello, compiono perciò uno sforzo mentale superiore. proibito disegnare perché il disegno mette in dubbio le capacità dell’incisore di creare immagini, una qualità che gli viene dall’eroe mitico che a sua volta l’ha ricevuta dal dio da cui discende. Come i grandi compositori, i maestri di Kitawa vedono le forme direttamente nella mente. Mozart faceva così: componeva nella sua mente, senza suonare, e se poi scriveva la musica, era solo per farla eseguire [...] Per raccogliere il testo del mito della ”canoa volante”, scoperto da Malinowski, ho impiegato vent’anni. Ho scovato chi ne aveva la proprietà in un’altra isola, solo lui era autorizzato a ripeterlo. I figli della sorella lo controllavano. ’Perché lo racconti a lui?’, gli hanno chiesto. Allora ai miei accompagnatori ha raccontato che ero figlio di una donna di Kitawa, la quale aveva sposato un bianco. Mia madre mi aveva rimandato indietro da Roma per imparare la lingua. Gli ho dato del tabacco, parecchio tabacco, e allora lui ha iniziato a narrare. Nel suo racconto la canoa volante atterrava a Roma: mi aveva incluso nel mito del loro eroe”. Per realizzare il suo progetto Scoditti ha sopportato grandi fatiche: viaggi, malattie, frustrazioni, incomprensioni, solitudine. [...] ”Garroni mi diceva: la tua è un’autoanalisi. Credo sia stata una sfida: ho mostrato a me stesso di non creder al pregiudizio che gli abitanti dell’isola fossero mentalmente meno complessi di noi [...] Quando vado là porto i libri. Loro guardano le fotografie e commentano: diventa un motivo per raccontare. Stanno perdendo pezzi di memoria di loro stessi, in modo drammatico” [...]» (Marco Belpoliti, ”La Stampa” 20/1/2006).