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 2005  gennaio 02 Domenica calendario

«La civilizzazione inizia con la distillazione», Il Sole-24 Ore, 02/01/2005 «Acqua? E cos’è? Saranno trent’anni che non bevo più di quella strana roba», rispondeva Isadora Duncan a chi le chiedeva un bicchier d’acqua

«La civilizzazione inizia con la distillazione», Il Sole-24 Ore, 02/01/2005 «Acqua? E cos’è? Saranno trent’anni che non bevo più di quella strana roba», rispondeva Isadora Duncan a chi le chiedeva un bicchier d’acqua. Sergej Esenin che viveva con lei condivideva la sua passione per gli alcolici. A Mosca la coppia si alzava alle due del pomeriggio. Esenin aveva la faccia gonfia e i capelli arruffati come Isadora. Un visitatore era rimasto stupito quando i due si erano versati un bicchiere di tè nero e se l’erano bevuto di gusto fino all’ultima goccia. Salvo accorgersi al primo sorso, tra le risate della coppia, che si trattava di un fortissimo cognac. Zelda e Scott Fitzgerald erano una coppia altrettanto alcolica. Anche loro si svegliavano all’ora di pranzo, ma cominciavano subito a litigare. Zelda infatti si sentiva mostruosa e non sopportava l’odore della cipria invecchiata sulla sua pelle durante la notte. Furibonda, svegliava Scott per dirgli che voleva dormire fino all’ora di cena. «Non puoi dormire restando seduta». «Posso fare tutto ciò che voglio. Tutto! Posso anche dormire da sveglia». Quando Montale era andato a intervistare Hemingway, miracolosamente vivo dopo un disastroso incidente aereo, gli aveva visto sul viso un rossore che aveva ironicamente attribuito alla timidezza. Forse sapeva che lo scrittore faceva colazione con una coppa di champagne frappé e proseguiva con lo stesso ritmo. Del resto sparse nella stanza c’erano varie bottiglie di Chianti e di whisky. Hemingway appariva sovreccitato e gli aveva preso il viso tra le mani per scrutarlo meglio. Passato l’esame, aveva cominciato a parlare in quattro lingue diverse. Aveva definito Fitzgerald un ubriacone, poi gli aveva chiesto se aveva letto D’Annunzio e aveva cominciato a saltare sul letto per fare il verso al Vate gridando: «Vivere non basta!». L’alcool scorre tumultuosamente nelle vite e nelle opere di molti autori, specie quelli anglosassoni, ma, se la sbornia è un gioioso momento d’abbandono, i postumi vengono vissuti da ognuno in modo diverso. E un autore spagnolo, Juan Bas dedica al tema un Trattato sui postumi della sbornia, Castelvecchi (p.189, euro 12,00). Joyce, spesso riconsegnato alla moglie in stato d’incoscienza, usciva dai postumi delle bevute solo grazie a Nora che lo assisteva teneramente trattandolo come un bambino. Hammett si alzava tardi e usciva dal mutismo del doposbornia soltanto per fare le parole incrociate con l’aiuto della segretaria. Un giorno non ce la fece ad alzarsi e chiamò la ragazza: «Venga a sdraiarsi vicino a me. Non abbia paura, non le farò niente». Le mise un braccio intorno alle spalle e rimase a lungo immobile. Una nottata meno impegnativa lo lasciava allegro, pronto a inaugurare la giornata, o meglio il pomeriggio, inventando cocktail fantasiosi. Edmund Wilson, il grande critico americano, si sbronzava preferibilmente di B&B, benedictine e brandy, ma era uno dei pochi a non curare la sbronza con un cicchetto. Si limitava a dormirci sopra e iniziava la giornata senza pensarci. Lavato, sbarbato «avvolto in lini immacolati», sbucava dalla toeletta «come rinato, come un Dio risorto». Bukowski si ubriacava regolarmente di whisky allungato con la birra, ma cercava di rimanere sobrio durante le feste di Natale e Capodanno, definite sprezzantemente da «ubriaconi dilettanti». Quasi ogni giorno si svegliava con un’orrenda emicrania, un cerchio intorno alla testa, la bocca secca, l’alito pesante e lo stomaco in tumulto. Allora si trascinava fino al bagno, dove vomitava e si faceva faticosamente la barba. Waugh aveva un’esperienza di sbornie che risaliva agli anni del college. A volte svegliandosi sentiva addirittura delle «voci» che parlavano con disgusto dei suoi eccessi, ma le teneva in scacco concentrandosi sulle «laboriose operazioni di rasatura e vestizione». I Calvados che Truman Capote ingoiava nei cabaret senegalesi gli davano il giorno seguente continui flussi di nausea, ma anche la curiosa impressione di divertirsi follemente. Per l’ispirazione poi era una manna: «Molte delle persone che incontravo nelle mie baldorie penetravano oltre le nebbie del Calvados per scarabocchiare firme indelebili nella mia mente». Kerouac era più drammatico. Si svegliava con il panico della morte che gli «grondava giù dalle orecchie come grevi ragnatele di ragni». La faccia che vedeva nello specchio era talmente spaventosa che non riusciva nemmeno a piangere. Allora pensava: «Se non mi dò una mossa subito sono spacciato». Si metteva a testa in giù per fare affluire il sangue al cervello, poi si infilava nella doccia. Si cambiava completamente, come Wilson, e correva a sgranchirsi giù in strada. Il motto di Faulkner - «la civilizzazione inizia con la distillazione» - era frutto di una vasta esperienza nel settore delle bevande. «L’esperienza mi insegna che gli oggetti di cui ho bisogno per il mio lavoro sono carta, tabacco, cibo e un po’ di whisky». «Vuol dire bourbon?» gli aveva chiesto l’intervistatore. «Non sono così esigente. Tra uno scotch e niente, meglio lo scotch». Le donne non erano da meno. Dawn Powell aveva scoperto che i postumi delle sbornie potevano diventare notevoli fonti di ispirazione. Lei preferiva il gin al whisky dei coetanei della Generazione Perduta, ma spesso al mattino non sapeva spiegare al marito, reduce da analoghe bevute, chi era l’uomo che dormiva nel loro letto. Esaurito l’effetto euforizzante di cocktail che, «se mi schizzasse in faccia una sola goccia farebbe l’effetto di uno spruzzo di vetriolo», Dorothy Parker sprofondava in una pesante tristezza. Si sentiva tradita dall’alcol e riconsegnata senza difese al dolore e all’angoscia di vivere. Mentre grosse lacrime le «zebravano» le guance, si rifugiava vanamente sotto le coperte. Mary MacCarthy si svegliò in sottoveste in una camera sconosciuta d’albergo dove l’avevano depositata svenuta. Angosciata, lanciò un urlo e scoppiò a piangere sconsolatamente: «Oddio, ho screditato la ”Partisan Review!”», la rivista con cui collaborava. Intuiva di averne combinate delle belle, ma era ancora più orripilata all’idea di non sapere cosa aveva fatto. Lilian Hellman si era addormentata in un prato ed era stata svegliata dal sole. Si era trascina nella stanza d’albergo riuscendo faticosamente a farsi una doccia e aveva ordinato il «rimedio standard per i postumi della sbornia»: un uovo crudo, uno sherry doppio e due cucchiaini di salsa Worchester. Poi aveva dormito qualche ora, si era svegliata e aveva vomitato. Nel caso i sintomi persistessero passava alla seconda soluzione: mandava giù un po’ di birre e poi ricominciava a bere. Ma il più elegante del Novecento resta senza dubbio Cechov che si spense con una coppa di champagne in mano, dicendo semplicemente: «Muoio». Giuseppe Scaraffia