Mauro Covacich Corriere della Sera, 03/01/2005, 3 gennaio 2005
Una storia di Prozac e di benessere esagerato, Corriere della Sera, 03/01/2005 Di tutti gli effetti collaterali, quello che mi piaceva di più era: «Benessere esagerato»
Una storia di Prozac e di benessere esagerato, Corriere della Sera, 03/01/2005 Di tutti gli effetti collaterali, quello che mi piaceva di più era: «Benessere esagerato». Un’immagine tanto assurda quanto perfetta: te lo vedevi proprio questo tizio che stava così bene da andare oltre i limiti del bene, quelli oltre i quali, paradossalmente, di nuovo non si sta più come si vorrebbe. Il Prozac non lo prendevo io, lo prendeva un ragazzo di cui mi sono occupato, quasi quindici anni fa, durante l’anno di obiettore di coscienza. Qui lo chiamerò Sergio anche se il suo nome è un altro. D’altronde, nel gergo tecnico di operatori e pazienti il ”Prozac” si chiama ”Fluoxetina”, e insomma niente in questa storia ha il nome con cui è comunemente conosciuto. Sergio era affetto da bulimia nervosa. Non so come stia adesso, all’epoca pesava più di 150 chili e stava piuttosto male. Aveva fatto dei mestieri strani: prima il lava morti, poi l’addetto allo spurgo delle fogne - «per non avere gente tra i piedi» diceva lui -, quando aveva cominciato a venire al centro (lo chiamerò centro) aveva smesso già da un po’ di lavorare. Il suo impegno più grande, un impegno gravoso, spesso insostenibile, era evitare di mangiare. Sergio mangiava il mondo, lo ingoiava come capitava: tubetto di maionese in una mano, bicchierone di latte e menta nell’altra, vasetti di burro d’arachidi sgominati direttamente col cucchiaio, intere confezioni formato famiglia di pizza surgelata su cui spargeva la cenere di sigaretta per ottenere un effetto forno a legna. Per la depressione, la posologia di mantenimento è di 20 mg al giorno. Nel caso di Sergio era di 60 mg, tre capsule da mandar giù al mattino in un’unica soluzione. «Chissà quando arriverà ’sto benessere esagerato» diceva. Era un tipo ironico, dotato di uno spirito nero, un po’ alla Swift. Le volte che non riuscivo a trascinarlo al centro (dove si faceva fare dei vomitevoli infusi al rosmarino da un’altra ragazza malata), se ne stava a casa a guardare i maghi. Era il periodo in cui i maghi avevano cominciato a colonizzare la seconda serata delle emittenti locali. Sergio li registrava e poi se li sparava per tutta la giornata: vhs di 240 sorbiti sul divano col telecomando sulla pancia, una vampa ipnotica che valeva più di qualsiasi anestetico. Gli piaceva l’idea che tutta quella gente che durante il giorno si poteva vedere in giro per strada, sicura e benvestita, di sera chiedesse di amore, salute e affari a uno sconosciuto, per di più in televisione. Gli piaceva guardarseli mangiando il mondo - il panetto di burro in una mano, il barattolo di acciughe nell’altra, senza neanche bisogno dei crostini. Più tardi, quando è uscito Matrix, ho pensato a Sergio. Era così che doveva vederci lui: ologrammi di esseri umani che vivono felici in un software. Bastava prendere la pillola rossa e la realtà ti si rivelava per quello che era: ruspe, macerie, morte termica, gente sola che telefona ai maghi. Quanta Fluoxetina doveva prendere Sergio per contrastare quella rivelazione? Quando si sarebbe manifestato il benessere esagerato? Il problema, con i melanconici, è che ti senti sempre un po’ scemo: tu riesci a trovare ogni volta un buon motivo per amare la vita, e proprio quando sei sul punto di dirlo, uno come Sergio ti anticipa: «Ma per quale ragione non dovrei stare male?». Mauro Covacich